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Ultraterreno Pollini a Messina, Beethoven trasfigurato

Il grande pianista sposta la Sonata “Hammerklavier” oltre la linea della modernità

Maurizio Pollini

Il gigante sul palcoscenico è uno scricciolo d’uomo, e sembra quasi appoggiarsi al grande pianoforte nero. La camminata meccanica, la postura incerta, tutto in lui rivela il carico degli anni, che tra pochi giorni saranno ottanta. Maurizio Pollini al Teatro Vittorio Emanuele di Messina, le sonate op. 101 e op. 106 di Beethoven.

Provare a comprendere le ragioni di un artista così grande è un’operazione inutile e fuorviante: forse sono da riferire a un’esigenza interiore, al bisogno di attingere a qualche frammento di verità, una coerenza espressiva da chiarire a se stesso, un anelito di condivisione da provare a decifrare. Su un palcoscenico decentrato, davanti a persone osannanti che lo applaudiranno a prescindere, considerando un miracolo il semplice esserci, ad ascoltarlo.

Scegliere Schumann, o il pur amatissimo Chopin, forse avrebbe infoltito il pubblico in sala e nessuno avrebbe cercato di divinare i suoi pensieri, interpretare ogni accordo, rivivere “in presenza” le sensazioni di ogni suo ascolto passato, decine o forse centinaia, magari su vecchi vinili graffiati dal tempo, o su cd dalle copertine sbiadite. Ci saremmo, tutti, limitati ad ascoltare.

Le ultime sonate di Beethoven invece no, non sono mai semplici numeri da concerto: sono un testamento spirituale, sono strade inesplorate indicate alla musica e al mondo, e il loro autore è, disse Wilhelm von Lenz, «il genio che costruisce il cielo dei propri sogni». Pollini ne è l’interprete forse più grande, sicuramente tra i massimi, e le ha in repertorio dai primi anni 70 del secolo scorso: mezzo secolo. Cosa avrà avuto da comunicarci, l’altra sera a Messina, all’alba dei suoi ottant’anni?
Non lo sappiamo e non lo sapremo mai, ma l’effetto è stato comunque sbalorditivo.

Tempi veloci, in alcuni passaggi addirittura frenetici, e già questo è insolito in un interprete anziano, da cui si attenderebbero indugio e analitica ricerca del particolare nascosto, della sfumatura solitamente occultata. A cominciare dall’Allegretto misterioso che apre la Sonata n. 28 in La maggiore op. 101, una pagina soffusa di un lirismo che anticipa i romantici ma che procede con una libertà formale che disorienta ad ogni ascolto. Qui Pollini sembra procedere a strappi, gioca col pedale di sinistra, probabilmente l’acustica della sala piena lo confonde.

Poi, piano piano trova il suo passo, e già nel “Vivace alla marcia” del secondo movimento e poi ancor più nel secondo Adagio inizia a rivelare quella che sarà la scansione interpretativa prescelta: la ricerca della maggiore nitidezza possibile del suono alla prova di tempi più serrati del consueto. Impressione ovviamente deflagrata allo scoccare del trillo che introduce al Finale, una quasi-fuga in cui l’elemento contrappuntistico esalta proprio l’esigenza avvertita dal Maestro di ripulire e scarnificare le note.
Suggestioni confermate, anzi centuplicate, in coerenza con le mutate proporzioni, al cospetto della Sonata op. 106 in Si bemolle maggiore, la celeberrima “Hammerklavier”.

E qui forse il vecchio motto wildiano a proposito del compito di colui che scrive di arte, che sarebbe provare emozioni e restituire a chi legge emozioni nuove e diverse dalle prime, mostra la sua sostanziale limitatezza concettuale. E torna la domanda precedente: cosa ha voluto comunicarci?

Nulla di quello che segue costituisce una risposta, ma l’impressione predominante è stata, letteralmente, di sgretolamento del materiale sonoro. Lo sonata-monstre è volata via in un tempo parso assurdamente breve. Ad ascoltare Pollini ci è venuta in mente la definizione della “Hammerklavier” attribuita a Richard Wagner: «Si è come introdotti nella fucina dell’essenza delle cose. Quale grido di passione, fin dal momento in cui si spalanca! Lo stesso Shakespeare è inferiore al paragone perché ciò che ha creato dipende troppo dalla miseria del mondo: tutto è in lui realtà, terribile somiglianza della vita, vero spettro dell’esistenza. Mentre in questa sonata tutto è idealizzato: pura trasfigurazione».

Ecco, trasfigurazione. Beethoven e Pollini. L’uno, il genio all’apice della sua parabola che forse per l’ultima volta demolisce dal suo interno la forma-sonata perché comprende che altri linguaggi occorrono alla musica. L’altro, l’interprete-vegliardo che oltre l’apice della sua parabola eleva se stesso al di là della linea di demarcazione degli stili, e anche e soprattutto al di là di quella tradizione interpretativa che egli stesso nell’arco di decenni aveva depurato da ogni incrostazione romantica e tardo-romantica a vantaggio della purezza del suono. Allora l’Allegro diventa una vertigine, un precipizio, magniloquenza setacciata da ogni retorica e metamorfosata in una sorta di horror vacui, abisso spalancato su altri abissi. L’Adagio non anticipa più Chopin ma lo supera, e la mente richiama le rarefazioni sonore ancora tanto di là da venire.

E poi l’immenso finale, lo sconcertante Andante centellinato in un pulviscolo di note secche, mentre la ciclopica Fuga non è più l’urlo di un Prometeo che spezza con la ragione le catene dell’istinto, ma diventa, osiamo dire, la stupefatta e non indolore presa d’atto di un mondo che non si riconosce più.

«Se prendo la morte nella mia vita, la riconosco e l’affronto a viso aperto – scrisse Heidegger – mi libererò dell’angoscia della morte e della meschinità della vita, e solo allora sarò libero di essere io».
Tutto questo, o molto altro, o forse la sua perfetta antitesi, ha voluto dirci, in perfetta libertà, Maurizio Pollini al Teatro Vittorio Emanuele di Messina. Ricavandone, ma questo è un dettaglio senza senso, un assoluto trionfo.

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