
Non c’è scusa per uccidere. Non c’è scusa per la guerra. E non c’è scusa per l’indifferenza.
Non sembra essere la risposta a una domanda quella dell’artista e attivista cinese Ai Weiwei, sembra piuttosto un appello. In un’epoca in cui l’arte viene spesso ridotta a intrattenimento estetico, in un momento di rinnovata tensione globale, con guerre in corso, politici inquietanti e una cultura che rischia l’assuefazione al silenzio, la sua voce attraversa la materia dell’arte contemporanea, denuncia e resiste. Insomma, Weiwei entra in scena come una fenditura nel linguaggio levigato del sistema. La sua presenza - anche solo verbale - è una crepa aperta nel muro della retorica contemporanea. «Sono felicissimo di essere qui» ha detto ieri, inaugurando a Palazzo Corvaja per Taobuk la sua installazione per la prima volta in Italia, “Water Lilies”, curata da Arturo Galansino, direttore generale della Fondazione Palazzo Strozzi, alla presenza della direttrice del Festival Antonella Ferrara, e del vicesindaco di Taormina Jonathan Sferra. «Non sono un artista politico, sono semplicemente un uomo che prova a dire la verità con gli strumenti che ha a disposizione», ha ribadito circondato dall’affettuosa accoglienza del pubblico cui si è offerto con generosità.
Durante l’incontro di venerdì sera si era subito capito che, con tono pacato, non le avrebbe mandate a dire: non aveva raccontato la propria vita per compiacere il folto pubblico ma ne aveva fatto materia d’arte e, insieme, atto d’accusa. L’esilio, la prigione, il silenzio imposto e quello rotto: tutto è diventato linguaggio.
Come i mattoncini Lego (ne ha usati 650.000) al posto della tela, la più grande opera realizzata dall’artista, lunga 15 metri, che strizza l’occhio al capolavoro impressionista “Le Ninfee” di Claude Monet: «I Lego ho iniziato a usarli nel 2014, mentre mi trovavo rinchiuso in prigione, per rappresentare simbolicamente la condizione dei “Freedom Fighters”, i combattenti per la libertà, incarcerati per motivi politici. Ero in prigione anch’io: l’opera l’ho disegnata dentro e l’ho fatta realizzare fuori. Dagli anni ‘90 ho smesso di dipingere e ho scelto i mattoncini Lego come nuovo mezzo espressivo perché li trovo adatti a creare opere bidimensionali ma con profondità, mantenendo il carattere ludico del gioco». Non per niente Lego, in danese, significa “gioca bene”.
Un artista, Weiwei, che parla di esilio come di un luogo familiare e quella porta nera che compare al centro delle sue ninfee “alla Monet”, non è un vezzo, è una ferita. «Simboleggia l’esilio, il vivere nascosti. Mio padre, poeta e pensatore, fu mandato in esilio e io lo seguii; anch’io fui arrestato anni dopo per ottantuno giorni. Non mi hanno detto perché. E nemmeno mi è stato spiegato perché sono stato rilasciato». C’è in lui una lucidità feroce, ma mai cinica. Un’urgenza morale che chiama in causa non solo la politica, ma lo spettatore stesso. Il visitatore del museo, l’utente dei social, il lettore distratto: «Oggi ci siamo abituati alla morte. I media ci somministrano ogni giorno un misto di vero e falso, e la nostra sensibilità è sotto attacco. Dobbiamo reagire». La frase che ritorna come un mantra è: «Dobbiamo far sentire la nostra voce». È un’esortazione, certo, ma anche una denuncia: «Il mondo ha smesso di parlare. Siamo diventati muti davanti alla tragedia, semplici spettatori». C’è nelle sue parole un invito - talvolta un’ingiunzione - a riconoscere che la dignità non è negoziabile.
La sua è una sorta di militanza artistica, in cui l’esperienza personale si fa strumento collettivo. E si fa anche linguaggio politico, quando parla di confini: non solo quelli tracciati sulle mappe, ma quelli invisibili, i più subdoli: «Ci sono confini linguistici, religiosi, razziali. Confini tracciati dalla burocrazia, dalle differenze imposte. Io me li porto dentro». La biografia dell’artista è, infatti, la mappa di un viaggio continuo: la Cina comunista dove è nato e cresciuto, la fuga, gli Usa che l’hanno ospitato, la Germania e ora il Portogallo dove vive. Ogni luogo, una lingua, ogni lingua, un confine da superare. «La povertà è uno di questi confini. Impedisce alle persone di studiare, di capire, di crescere. E io questo l’ho vissuto. Ogni battaglia per la libertà è una battaglia per una diversa configurazione della società». E poi c’è la tecnologia. L’intelligenza artificiale, il grande seduttore di questo presente instabile. Ai Weiwei la guarda senza entusiasmo. Anzi, con diffidenza. «L’intelligenza artificiale ha paura della differenza. Noi umani, no. Noi dobbiamo sapere accettare l’errore, perché è lì che nasce la vera intelligenza. La vita non dà mai risposte perfette. Ti costringe a cercarle da solo».
Lo dice in modo netto, persino brutale, ma è un punto cruciale: la macchina risponde, ma non comprende. L’uomo, se vuole, può ancora scegliere. L’arte allora non è un rifugio, è un campo di battaglia, è il luogo dove si salva, se possibile, l’umano. E se la voce dell’artista suona forte è perché «non possiamo immaginare più il futuro». E allora, che garanzia possiamo dare a un neonato che nasce oggi? Ai Weiwei non offre soluzioni. Offre domande. Quelle che fanno male. Quelle che fanno svegliare. Quelle che nessun algoritmo saprà mai formulare. L’ultimo insegnamento, quello più inatteso? Non esiste arte - né libertà - senza fatica, senza dubbio, senza fallimento. Prenda appunti chi vive inseguendo la performance a tutti i costi.
Ieri a Taobuk, a parlare di confini anche Peter Cameron e Susanna Tamaro, accolti dall’abbraccio del pubblico, e il procuratore di Napoli Nicola Gratteri, che ha parlato di giustizia e legalità dialogando con Elvira Terranova.

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