
«I libri sono una specie di mappa, ma è che dobbiamo essere bravi a farci portare dove vogliamo, anche nei luoghi oscuri, pericolosi». È questo che fanno i libri alle persone, mentre lasciano segni profondi sulla nostra carne, sui nostri pensieri. E questa mappa che ci porta dove dobbiamo, dove vogliamo, ha trovato dimora in «Col buio me la vedo io» (Einaudi Supercoralli), il bel romanzo d’esordio della giornalista della Gazzetta del Sud e blogger Anna Mallamo (che nel 2010 con “Lezioni di tango”, Città del Sole Edizioni, respirava e dispensava la medicina del tango, sua grande passione), quando le parole hanno trovato la loro strada e «le attese che ci abitano, tutto ciò che siamo chiamati a compiere», come scrive l’autrice “strettese” (nata a Reggio Calabria, vive a Messina in perenne andirivieni tra le sponde), sono diventate una vera impresa emotiva con una scrittura evocativa dall’impasto ricco e risonante, visionario e oracolare.
Una colta lingua «italiana con calchi dialettali» sulla quale la Mallamo ha molto lavorato, perché fosse «corposa, proliferante, turgida» e incrociasse «mondi in transizione» tra vecchio e nuovo, tra antico e moderno, tra la lingua dell’emancipazione e la lingua dell’appartenenza, del codice intimo. «Una lingua tutta nuova che afferma e nega, allarma e consola» scrive Donatella Di Pietrantonio nella fascetta del libro (che sarà presentato domani alle 17 a Reggio, nella Sala dei sindaci di Palazzo San Giorgio, nell’ambito del festival Balenando in burrasca).
Schiva e inquieta, un corpo ora gabbia e ora confine da superare e un viso ancora pieno di domande, Lucia Carbone, io narrante del romanzo, è una studentessa liceale sedicenne che a Reggio Calabria, negli anni ’80, sta attraversando assieme all’amica Beatrice, che «non la capisce ma la sa», l’inquietudine e l’invisibilità della loro età imperfetta e immensa (conoscono e praticano «la chimica dello scomparimento»), lo spazio assoluto eppure pieno di crepe in cui credi di essere quella sbagliata, salvo pensare poi che lo sono gli altri, per prima la famiglia, «al centro di tutto, che porta il peso di tutti, un sistema di pieni e di vuoti, di presenze e di mancanze, tutte assieme».
È concentrata lì la vita di Lucia, innocente e affamata di vita in quella famiglia «che è una guerra dove le alleanze cambiano continuamente», in una città attraversata da furori e violenza, con le sue guerre di mafia e i sequestri e gli scontri politici. E «in quell’anno di grazia 1981 in cui essere giovani è un sogno condiviso, è essere incantesimati e frastornati e straziati e insaziati», Lucia, di famiglia piccolo-borghese, che grazie alla cultura classica da Eschilo ha imparato cosa sono il tradimento e la vendetta, sente dentro di sé le Medee e le Circi e sa essere come loro violenta e fragile, vive il fatto di «non essere grande ma nemmeno piccola, e avere paura e le mappe tutte sbagliate».
Un cuore ardente che un giorno di un «marzo pazzo» decide, attirandolo con un libro, di segregare Rosario, un compagno di classe, figlio di un boss della ’ndrangheta, nella cantina della vecchia casa della nonna, Lucia come lei, morta l’anno prima. Un gesto deflagrante, con il quale Lucia pensa di distogliere Beatrice dalla sua ansia innamorata per quel ragazzo di una famiglia «di malicristiani», e di scoprire il mistero della morte della sua zia preferita, Rosa, amante della natura, dei libri e dei segni, avvenuta in Aspromonte in circostanze mai chiarite.
Comincia così una quête che – spiega l’autrice – «attraversa la città con uno sguardo amoroso, ma senza celare alcuna ombra»: un dipinto ad acquaforte in bianco e nero con sferzate di rosso (rosso come il sangue che colora il romanzo non perché se ne versi, ma perché è ciò che scorre tra chi si ama e chi si odia, tra il sopra e il sotto di una terra che insiste sull’abisso e sulla bellezza irrinunciabile dello Stretto), un colore mai quieto tra la tracimante luce meridiana e il buio scintillante di quel mare di fere e di sirene-custodi, di fronte al quale la felicità è come il dolore, annienta e al contempo consola.
Presente a tutto, anch’essa «fimmina», c’è il corpo di Reggio Calabria, città di salite e di discese, «città greca a meandri», complessa e stratificata sin dalla nascita, «piena d’occhi a cui niente sfugge e che tutto si fa sfuggire», tante Reggio che sprofondano una dentro l’altra, con i loro fantasmi, anche quelli cui si è voluto bene, e i loro mostri, anche quelli nati da un malinteso senso dell’amore e dell’onore, e «le catene del sangue» e i gesti che dalle madri si ripetono nelle figlie.
Ogni inchiesta impone di affrontare le tenebre per interrogare gli enigmi e Lucia, attratta dai movimenti sotterranei, compresi quelli dell’amore, ma determinata a disfare il mondo per costruirlo come è proprio della giovane età, vuole vedere con i suoi occhi, come invita il suo nome (il romanzo è pieno di nomi parlanti), fino alla scoperta che nessuno è innocente, che il passato può restituire anche erbe velenose, assieme a quelle medicinali che la zia Rosa amava raccogliere sulla Montagna.
Pure gli affetti hanno qualcosa di intossicante, Lucia lo sta imparando, e il suo scendere e risalire nella e dalla cantina della nonna, una casa pulsante, trappola e rifugio come ogni casa, una casa che richiama con il suo silenzio, anch’esso parlante, è una catabasi necessaria per conoscere e conoscersi.
La speranza allora, che nel Vaso di Pandora sta insieme ai mali del mondo (Lucia ne chiede il motivo al suo sapiente professore Castelli), rimane nella capacità di vedere il reale senza chiudere gli occhi, nello slancio di cambiamento che illumini il buio con il quale comunque bisogna vedersela, lo stesso che aiuta a scendere dentro le profondità di ciascuno di noi.
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