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Si può essere “euro-delusi” e amare lo stesso l’Europa? Il saggio del messinese Antonio Arena

bandiera europea europa eu flag - fonte: EC

Si può essere “euro-delusi” e amare lo stesso l’Europa? Senz’altro. Anzi, proprio il connubio tra passione ed amarezza, che vela certe analisi, dimostra come le critiche costruttive siano un contributo imprescindibile, per dare un futuro di speranza alla nostra casa comune. Se, poi, a riflettere sui malanni dell’Unione è proprio un addetto ai lavori, allora la cosa si fa intrigante, perché l’autorevolezza della fonte dà un “peso” tale ai giudizi espressi da renderli praticamente inattaccabili.

È quanto ha fatto Antonio Arena, messinese, già funzionario del Parlamento europeo, realizzando un volumetto che sintetizza la storia dell’Ue. Con un’accortezza però: i passaggi sono scanditi e illustrati in tutti i dettagli, riservando riflessioni più approfondite alle “aree di crisi”, determinate da difetti “strutturali”. Insomma, dai peccati originali che l’Unione si porta appresso, fin dalla sua nascita e che, con l’andare del tempo, anziché scomparire, si sono invece acuiti. «Finis Europae?» (Oaks editrice) è il titolo del masterpiece, con un catenaccio che è tutto un programma, ma che va reinterpretato: «L’Europa non è Nato», dove l’ultima parola si riferisce chiaramente all’Alleanza atlantica.

Considerato che il libro è stato scritto lo scorso autunno, l’autore in effetti auspica una maggiore indipendenza politica, economica, militare e culturale dagli Stati Uniti. E questo a prescindere dall’attuale presidenza Trump. Tuttavia, il forte richiamo ai valori condivisi con l’America, sottolinea anche la “asimmetricità” degli interessi, che in talune circostanze possono portare al confronto. Ma il merito principale di Arena è quello di smontare e rimontare, capillarmente, tutti i meccanismi del funzionamento istituzionale dell’Unione.

Come un meticoloso orologiaio svizzero, l’ex funzionario ne mette in risalto la complessità. Anzi, la vera e propria farraginosità, che contribuisce ad un avvilente scadimento nel livello della governance. Il libro fissa così alcuni «turning points» che spiegano vizi (molti) e virtù dello sviluppo comunitario.

Innanzitutto, il fatto che l’Unione Europea sia stata costruita su un’anima mercantile e che solo dopo le sia stata arrangiata, sopra, un’architettura politica. L’allargamento, sostenuto da una strategia «di scala» (più grosso=più forte), ha finito poi per innescare una tumultuosa corsa all’allargamento, che ha messo in crisi i criteri di convergenza. E ha richiesto, in modo esponenziale, somme sempre più impegnative per le politiche di stabilizzazione sociale.

L’equazione perversa è stata: più denaro, più burocrazia. E ancora, come un mantra, sempre più burocrazia e ancora altro denaro. Una gigantesca fabbrica del consenso, che non ha fatto altro che riprodurre i vecchi modelli nazionali, amplificandoli. Il controllo della spesa vuol dire anche controllo degli indirizzi politici, a livello continentale. Ecco che la tanto temuta «sudditanza nazionale» cacciata dalla porta è rientrata dalla finestra.

I Paesi più importanti, quelli che indirettamente controllano la spesa grazie al loro potere contrattuale, cioè Francia e Germania, in questo senso non hanno mai perseguito una strategia genuinamente europeista. E la cartina di tornasole di una simile ambiguità istituzionale è rispecchiata dalla stessa organizzazione della politica estera e di quella di difesa del blocco.

Al di là della moltiplicazione di vertici prolissi e rissosi, la verità è che non esiste una linea di politica estera omogenea. Ancora più triste è la situazione nel settore militare. Ataviche gelosie non hanno consentito finora la costruzione di un esercito europeo. E ancora adesso, mentre si discute di varare uno sforzo comune e coordinato, esistono Paesi, come la Germania, che per motivazioni principalmente di politica interna, sono pronti a spendere fino a 1000 miliardi di euro per il riarmo. Infischiandosene di tutti gli altri.

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