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Stabilire la verità «A torto o a ragione». Applaudito spettacolo a Messina

Un serrato dilemma etico nella messa in scena di Anfuso con un magnifico cast

"A torto o a ragione" al Vittorio Emanuele di Messina (foto Rocco Papandrea)
"A torto o a ragione" al Vittorio Emanuele di Messina (foto Rocco Papandrea)

Dove passa quella linea sottilissima, tra colpa e innocenza, tra adesione e collusione, quella che divide chi ha fatto da chi ha lasciato fare? Come facciamo a individuarla con certezza, e attribuire le colpe e le ragioni? Come possiamo dividere e dunque scegliere da che parte stare? È un interrogativo etico perenne, di certo, ma che ha avuto una sua tragica attualità nel secolo scorso, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, quando le potenze vincitrici si trovarono a “denazificare” la Germania (e sì, ha anche addentellati con la preoccupante realtà di pericolosi “risvegli” e oblìi del nostro presente...). Cosa c’è di più vicino al Male assoluto del nazismo? Eppure può essere difficile stabilire, tra chi nazista esplicitamente non fu – nemmeno iscrivendosi al partito – , quanto fu comunque colpevole, trovandosi a fiancheggiare o assecondare con l’inazione il regime. Con le sue ragioni, umane e umanissime: dalla pura viltà e paura di non sopravvivere a un’idea “diversa” di quello che può essere una “resistenza”.

Su questi temi si gioca l’intenso spettacolo «A torto o a ragione», produzione del Vittorio Emanuele assieme al Teatro di Roma e allo Stabile di Catania, con la regia di Giovanni Anfuso – catanese, direttore artistico della prosa al Vittorio e regista di lunga esperienza e duttilità – andata in scena con successo a Messina fino a domenica, dopo le felici tappe romana e catanese.

E qui dobbiamo anzitutto annotare l’importanza di una produzione messinese nei circuiti nazionali: la svolta d’un Teatro non solo Ente ospite, ma attivo committente, produttore e diffusore di sinergie e qualità.

La messa in scena fin dal titolo gioca l’affilata dicotomia che è alla base del testo (nella traduzione di Alessandra Serra), opera di Ronald Harwood (Oscar per la sceneggiatura di «Il Pianista» nel 2003) che era già diventata un film («Taking Sides» del 2001 con Harvey Keitel). Uno spettacolo ardimentoso, con unità di tempo luogo e azione e una staticità che fa diventare la scena camera di scoppio del dilemma etico di fondo, dello scontro tra le ragioni, opposte, dell’ “inquisitore” americano incaricato di istruire le pratiche sui “sospetti nazisti” e un artista importantissimo della Germania del ’900, il direttore d’orchestra Wilhelm Furtwängler (1886-1954), il prediletto da Hitler.

La regia punta tutto su questa progressiva claustrofobia della scena, che è un ufficio ma stracolmo di opere impacchettate e ingabbiate (la scena è di Andrea Taddei, i costumi di Isabella Rizza, le musiche di Paolo Daniele, le luci di Antonio Rinaldi): la famosa “arte rubata” dai nazisti a mezza Europa e che in quella confusa fase postbellica venne in parte recuperata grazie agli Alleati. Ma c’è un’altra “arte rubata” che non fu più possibile recuperare: gli artisti ebrei, o oppositori del regime, fuggiti o allontanati o assassinati, i musicisti falcidiati e sostituiti. È lì che il testo s’allarga (e la scena si stringe, alla gola): nell’istruttoria su Furtwängler. Il più bravo, il più celebre.

Stefano Santospago, sempre di grande classe, lo fa dignitoso e diritto e umbratile, in contrasto deciso coi modi chiassosi e apertamente volgari del militare che lo interroga, Simone Toni (molto efficace, forse un’ottava sopra il necessario), che pure è, in quel momento, il liberatore e il giusto, eppure viene difficile empatizzare con la sua sguaiataggine e i suoi aperti pregiudizi.

Gli altri personaggi concorrono al duello tra i due, con varietà di accenti ben composti nell’insieme: il tenentino David Wills, di cui Luigi Nicotra rende la ritrosa timidezza, capace però di dissolversi in appassionata perorazione in difesa del Maestro, in nome dell’arte; la segretaria Emmi Straube, figlia di un eroe di guerra, che Roberta Catanese fa sensibile e sospirosa e amante della musica, e di cui apprenderemo il segreto (confondendo ulteriormente ragioni e torti…); il secondo violino dell’orchestra, Helmut Rode, l’eccellente Giampiero Cicciò che ne apparecchia con maestria lo zelo servile e ipocrita e poi il crollo, l’ ammissione del peccato di viltà, vero uomo tedesco medio che finì per accettare l’inaccettabile, anzi traendone vantaggi, ma con l’aggravante d’essere un artista; l’energica Tamara Sachs di Liliana Randi, testimone a discolpa che non riuscirà a discolpare, pur citando i casi di numerosi artisti ebrei salvati da Furtwängler.

Ma quei pochi salvati possono compensare i troppi sommersi? Possono giustificare la condiscendenza del Maestro, persino in occasione del concerto per il compleanno del Führer?
Per Furtwängler l’arte «può creare una protesta più potente contro Auschwitz», e finché esisterà la musica, sarà ininfluente il rumore d’una bacchetta spezzata. Ma lo yankee, che a differenza del Maestro ha visto Auschwitz e i suoi morti viventi, gli chiede: «Dov’è il tuo ribrezzo?». Il necessario ribrezzo di fronte all’orrore. Entrambi esprimono una verità.

Chi vince dunque questo duello, questa prosecuzione della guerra con altri mezzi nella camera chiusa e asfittica della scena (o della coscienza)? Nessuno, sembra: i contendenti sono, alla fine, entrambi schiacciati, entrambi diversamente prostrati. La regia indica una possibile uscita che non compone il dissidio, lasciando a noi spettatori il giudizio, sulle note assolute di Beethoven. La bellezza può essere la risposta?

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