Sicuramente ha visto bene. E non poteva essere diversamente, una volta che di professione fa il medico oftalmico. Un medico che ha deciso di scrivere dei romanzi, fino alla virata in direzione del noir, coincidente con un’altra direzione: quella verso il successo.
In sintesi, è questa la storia di Cristina Cassar Scalia, scrittrice siciliana, autrice della fortunata saga dedicata al vice questore Vanina Guarrasi, protagonista dei romanzi pubblicati da Einaudi e diventati serie tv. Ieri è stata ospite della giornata inaugurale di Taobuk – tema 2024 Le identità - e ha presentato il suo ultimo libro Il castagno dei cento cavalli.
Ragioniamo sulla doppia anima di Vanina, capace di un’operazione complessa: far convivere la parte palermitana e con quella catanese…
«Vanina è assolutamente palermitana – chiarisce subito Cassar Scalia - l’anomalia, se vogliamo chiamarla così, sta nel fatto che vive bene a Catania. Ma questo aspetto deriva dal suo passato, dal motivo per cui ha dovuto lasciare Palermo. Lei è sempre la stessa e si nutre di contraddizioni importanti. Risoluta e senza tentennamenti sul lavoro, è l’opposto nella vita privata: una donna con molte fragilità, tutte legate al suo passato».
La vittima del suo nuovo libro, la boscaiola, è una donna apparentemente senza passato...
«Posso dire poco per non correre il rischio di rivelare troppo. Sicuramente è difficile frugare nel suo passato, operazione che, invece, il vicequestore tende a fare come metodo di indagine. Proprio da questa fondamentale tecnica nasce la sua intesa con il commissario Patanè, una vera memoria storica, che l’aiuta nel decifrare le vittime. Quest’ultimo caso è molto più complicato dei precedenti, però».
A proposito di identità, parliamo della Sicilia dalle cento, mille facce...
«Io sono siciliana del sud, di Noto, catanese adottiva e innamorata di Palermo».
Allora il suo è un vizio che ha trasmesso a Vanina…
«Sì, questa sfaccettatura nasce da me e dal mio modo di vedere la Sicilia, terra dalla diverse identità frutto di incroci di popoli, personaggio piuttosto ingombrante nei miei libri. Mi piace pensarla come un insieme di sottoregioni, ognuna delle quali è imbevuta delle tradizioni di culture arrivate da fuori che hanno lasciato tracce profonde, a seconda dei territori e dei modi di mischiarsi con la gente del luogo».
Anche il suo siciliano è, come dire, mischiato…
«Lo adopero nei dialoghi per colorire la narrazione. Credo che sia plausibile utilizzarlo soprattutto quando parla una persona anziana come il commissario Patanè o Spanò. Tengo molto alle diverse identità dialettali, do spazio a termini catanesi e ad altri palermitani a seconda del personaggio».
La scelta del noir per le sue storie ha un momento ben preciso…
«È successo visitando una villa antica ereditata da amici, disabitata da anni, con tende e maioliche polverose. A un certo punto mi è apparso un montacarichi e la mia fantasia di scrittrice ha subito collocato lì un cadavere. È cominciata così, e Vanina l’ho creata pensando a un personaggio che mi avrebbe fatto piacere trovare in un libro. L’ho fatta come piace a me. Allora non sapevo neppure se qualcuno avrebbe mai pubblicato il libro…»
Sappiamo, invece, come è andata: Einaudi l’ha apprezzato e pubblicato, i lettori l’anno acquistato. E sono arrivate altre storie. E perfino una serie tv Vanina, un vicequestore a Catania con Giusy Buscemi
«Che si è perfettamente calata nella parte. Comunque, fiction e libri. sono due prodotti totalmente diversi e come tali vanno visti».
Ha oggi una funzione il noir?
«Quella di raccontare la società, di analizzare i personaggi, anche quelli negativi come possono essere gli assassini, o di incunearsi nel mondo delle vittime. Vanina prima si occupava di criminalità organizzata, poi la decisione di impegnarsi contro la criminalità comune, a capo della sezione reati contro la persona. Un lavoro complesso: devi capire il perché di un omicidio, anche quando non sembra esserci una risposta, e poi il movente. Ti trovi a cercare delle crepe di una vita, pure le vittime, a volte, non sono del tutto cristalline. Le ragioni per cui si uccide possono essere le più disparate: denaro, invidia, gelosia, c’è sempre qualcosa che scatena una furia omicida. Io nel costruire la trama parto sempre dal luogo del ritrovamento del corpo e dal passato della vittima: una trovata, quest’ultima, che mi permette di raccontare un periodo drammatico della storia siciliana come quello tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta, in cui la mafia uccideva a un ritmo agghiacciante. E questa sorte era toccata al padre di Vanina, l’ispettore Giovanni Guarrasi. Approfitto anche per soffermarmi sul territorio in cui le storie si svolgono e si sviluppano, mettendo in rapporto protagonisti e luoghi».
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