Aun certo punto una signora del pubblico ha raccontato: «Mio nipote mi ha detto: vado a biciclare». Abbiamo sorriso tutti: è stato un preciso suggello della due giorni d’incontro («Parole per accogliere, parole per comunicare») con due illustri linguisti, la professoressa Valeria Della Valle e il professor Giuseppe Patota, condirettori, tra l’altro, delle edizioni 2018 e 2022 del Vocabolario Treccani, in missione a Messina per conto dell’italiano, grazie all’iniziativa della professoressa Patrizia Danzè, collaboratrice preziosa di queste pagine, del professor Fabio Rossi, ordinario di Linguistica italiana, e di monsignor Letterio Gulletta, parroco di San Nicolò all’Arcivescovado. A mostrarci nel modo più efficace come la lingua la facciamo noi parlanti e testuanti, ma chi confeziona i vocabolari, e dunque deve registrare usi, disusi, convenzioni, convinzioni, monitorare innovazioni, certificare estinzioni, ha un’enorme, meravigliosa responsabilità. Perché deve osservare, registrare e decidere. Deve riconoscere la vitalità delle forme e pure il suo opposto: la fissità, lo stereotipo. Una cosa che hanno ripetuto molte volte è stata: «La lingua va dove vuole». Che quasi potevamo vederla, quella lingua come un lungo serpentone di sillabe e lemmi e accenti che se ne andava in giro su mille piedi diversi, prendendo strade e svoltando, correndo avanti e tornando indietro e poi ancora. Uno strumento collettivo e individuale, antico e modernissimo, indomabile e pieno di regole. La professoressa Della Valle e il professor Patota hanno raccontato con la stessa passione a due platee molto diverse – il folto pubblico accorso nella chiesa di San Nicolò all’Arcivescovado, il pubblico di docenti e studenti del Dipartimento di civiltà antiche e moderne dell’Università – i temi e i patemi della lingua, per chi deve compiere quell’operazione, un po’ anatomopatologia un po’ embriologia, un po’ inventario un po’ costruzione, che è confezionare uno dei più importanti e autorevoli strumenti del nostro Paese. Uno strumento che ha appena compiuto una vera e propria rivoluzione (che già fa scuola): superare gli stereotipi di genere, introducendo l’ordine alfabetico invece di inserire, come di consueto, per ogni sostantivo e aggettivo la forma femminile solo dopo quella maschile. Introdotti dai tre organizzatori – mons. Gulletta ha citato, dalle Scritture, una scelta di passaggi, da Babele alla Pentecoste, in cui è risuonata la potenza della Parola, che è una spada, eppure può «creare, fare alleanza, fare pace» – Della Valle e Patota, alternandosi di continuo, con una felice fluidità che rispecchia una lunga consuetudine di lavoro condiviso e rivelando grandi doti di comunicazione, in una staffetta di chiarimenti, aneddoti, brillanti esempi, ci hanno illustrato alcune delle tante questioni in gioco, che spesso incrociano nodi assai dibattuti nel nostro presente: l’inclusività, i neologismi, i prestiti di parole straniere, le parole-fantasma (quei «residui passivi» che continuano a restare nei vocabolari per inerzia). Dopotutto, la scelta considerata più “forte” e che tanto ha fatto discutere, del nuovo Vocabolario Treccani riguardo il trattamento del genere, non è certo «cavalleria linguistica», ma registrazione meditata e autorevole d’un preciso, e forte, cambiamento di sensibilità linguistica (e quindi sociale e culturale): lo sbilanciamento sul maschile dei vocabolari finora aveva registrato una realtà non solo linguistica di prevalenza del maschile (che si evidenzia nel famoso “maschile sovraesteso” che sempre più viene vissuto come insufficiente a dare conto della realtà del genere, e a cui si cerca di ovviare in molti modi: tutti legittimi, ci hanno spiegato i due linguisti). Attraverso una carrellata d’esempi abbiamo preso atto dell’atteggiamento persino misogino di lessicografi del passato, e d’un preciso orientamento maschilista, e dunque scelte non fondate sulla struttura linguistica dell’italiano, ma su una sottostante struttura culturale d’impronta maschilista (molto gustosi gli esempi dei lemmi «zitella» e «scapolo», o dell’ormai anacronistico «signorina»). Confrontarsi con sensibilità emergenti e svolte in atto, ci hanno detto, è arduo e impegnativo, perché, contestualmente, si tratta «di non cancellare, ma di storicizzare» (e qui incrociamo questioni sociali e politiche su cui c’è scontro acceso, di questi tempi). E la loro è stata una sostanziale «opera di riequilibrio, senza modificare la leggibilità del dizionario», contro gli stereotipi di genere (molto gustoso, tra l’altro, l’elenco di proverbi misogini che raccontano un passato molto recente o non del tutto passato: il famoso «patriarcato sovraesteso»...). La lingua è viva e la grammatica d’altronde la fa l’uso, la comunità dei e delle parlanti. Con fughe in avanti, talora (si è parlato della questione «schwa» o asterisco, quei correttivi proposti per adeguare il linguaggio al rifiuto delle definizioni binarie di genere), e Patota ha chiarito che sinora mai proposte di riforme “dall’alto” hanno avuto fortuna: ci dirà la lingua (l* lingu*), dove vorrà andare… Come ci ha già detto con chiarezza, a proposito dei nomi femminili di professioni e qualifiche, che la vecchia obiezione «eh, però, suona male…» è pressoché dimenticata, e i nuovi parlanti sempre più trovano un ambiente linguistico in cui, per esempio, «sindaca» e «ministra» e «rettrice» sono parole normalissime (anche perché ce ne sono sempre di più, di sindache e ministre e rettrici), e... suonano bene. Molto interessanti le domande del pubblico, che hanno consentito ai due linguisti di chiarire che non esiste per principio un «diritto di coniazione» delle parole, né un loro certificato di morte, ma pure è compito dei lessicografi dar conto di sparizioni dall’uso (bellissimo l’elenco di parole sparite che ci hanno donato: da «fànfano» a «sbricco», requiescant), o parole-meteora (quel «petaloso» che ebbe una fugace stagione di fama), e mettere in atto la buona pratica di «tenere sotto osservazione le parole» per testarne presa e durata (hanno citato, per esempio, la famiglia di parole che ci sono venute dall’esperienza della pandemia, da «Dad» a «lockdown», e anche termini come «transfobia» e «terrapiattismo»). Ci hanno illustrato come hanno inteso confezionare «uno strumento amichevole (ma non banale)» che ci accompagni dentro la lingua senza chiuderci le porte, con un linguaggio che non respinga e definizioni che definiscano ma non richiedano… altre definizioni, fuori dal «vocabolariese» autoriferito o dalla grandine d’abbreviazioni. O dove le citazioni letterarie non siano puramente decorative (d’altronde, hanno precisato che la lingua la fanno anche giornalisti, politici, pubblicitari e persino cantautori, mica solo gli scrittori...). Molto evocato, in tutti gli incontri, è stato Luca Serianni, il linguista scomparso due anni fa, maestro indiscusso di dottrina e di umanità, così come Tullio De Mauro: la spessa, luminosa traccia degli studiosi che ci hanno preceduti e formati. A chiusura della due giorni, la professoressa Della Valle ha presentato alla libreria Feltrinelli la sua prima opera di narrativa, l’intenso romanzo «La strada sognata» (Einaudi). Una bella metafora: dopo e grazie a tanto lavoro e tanti studi e tante osservazioni, la lingua ci serve per la cosa più umana di tutte, di sempre. Raccontarci storie.