Perdersi, ma dentro la luce... Carmen Pellegrino a Messina per presentare il suo nuovo romanzo
«Dice il vero, chi parla di ombre». Il verso di Paul Celan – un altro che scelse di sparire – era esergo d’un romanzo di Carmen Pellegrino. Ovvero una delle parti che affiorano, di tutta la poesia che scorre e vibra sotto e dentro i romanzi dell’autrice. Sono tutti, questo è il quarto, romanzi dell’assenza e dell’ombra, di «ciò che siede nel buio», del silenzio dei ruderi, dei luoghi abbandonati ma non per questo senza vita, delle ferite del mondo, di chi s’allontana e sparisce ma si fa traccia e luce, e parola. Persino questo romanzo, che porta nel titolo la luce, è furiosamente, intensamente dedicato all’ombra, e a tutte le sue verità: «Dove la luce» (pubblicato da La Nave di Teseo, candidato al Premio Strega da Gad Lerner) trae il suo titolo, come gli altri, dalle parole d’un poeta, Giuseppe Ungaretti, che dopo aver visto e raccontato la guerra e la morte prova a parlare dell’amore che doveva rifondare il mondo. Si crede sempre questo, dopo le guerre: che sia un inizio, che mai più si potrà precipitare nell’ombra. Fu davvero così, dopo la prima e dopo la seconda guerra: era vero? Da lì, da qui parte il romanzo più complesso e personale di Carmen Pellegrino (che lunedì alle 18 incontrerà i lettori al Feltrinelli point di Messina): intimo nell’interrogarsi su una generazione che, scaduta la mitologia del crescere (e consumare) senza limiti, trova sulla sua strada ben altro genere di arretramenti e macerie; sociale nell’individuare in una stagione precisa, gli anni Settanta e Ottanta del Novecento – quella dei misteri di Stato, di Ustica e della strage di Bologna, di Sindona e di Ambrosoli – in cui quell’ondata di speranza venne circoscritta, fiaccata. È un elaborato andirivieni tra tempi e spazi, paesi piccolissimi e grandi scenari della storia, accadimenti e ricordi privati e tragedie collettive (ché l’individuo in ogni attimo – sembra dirci sempre Pellegrino – è un andirivieni tra intimo e sociale, tra minimo e smisurato). Si mescolano tutti i tempi: lo scatto della foto d’una bambina e il crollo del ponte Morandi; il tempo d’un post sui social, il tempo – illimitato, interminabile – d’una scossa di terremoto (l’Irpinia del 1980) e il tempo della semina (assieme stagionale e perenne, fuori dal tempo come tutti i miti e così dentro al tempo da scandirlo e misurarlo). Si mescolano le storie, perché siamo tutti un’immensa narrazione, fluida ma a scatti, ininterrotta eppure piena di cesure, in cui l’immaginario e il reale hanno la stessa consistenza, la stessa capacità di determinare le vite. Così la vicenda di Milo, senzacasa che vive in strada, «picchiato dalla sorte», vittima di colossali ingiustizie eppure incapace di pensieri di vendetta, s’annoda, a un certo punto, a quella del Professore, luminare la cui materia, l’economia, dovrebbe per lui essere al servizio di quelli come Milo, e non di quelli che hanno ferito e umiliato la vita di Milo. Il Professore è Federico Caffè, l’economista che fu voce importante nel dibattito politico degli anni 80 e sparì improvvisamente in un giorno d’aprile del 1987? Sì, e no. Sono immaginarie le lettere che scrive a una singolare musa, Adolphine (scopriremo solo alla fine chi è e non è, assieme, anche lei: un altro andirivieni tra reale, storico, e immaginato, potenziale, poetico), e in cui brilla la sua anima appassionata e compassionevole. È lui nella traccia spessa che ha lasciato, nella fioritura che ancora le sue parole riescono a darci, la tensione etica che lo portava, sempre, al servizio dell’Altro, e a ritenere che fosse preciso dovere dello Stato correggere le disuguaglianze, lavorare sui margini. Un altro effetto della narrazione di Pellegrino – così nutrita di voci, spunti, frammenti – è riflettere ad ogni istante su quanto ci alimentiamo delle parole altrui, quanto le voci degli altri ci sono indispensabili per disegnare noi stessi e il mondo, per «aggiustarci gli occhi», forse per salvarci. E la vicenda immaginaria di Milo e il Professore si snoda assieme a quella dell’io narrante (l’io narrato) dell’autrice, il suo privato (generazionale) andirivieni tra il paese d’origine (alle pendici dei monti Alburni, nell’ «osso del Sud»), l’attaccamento alla terra del padre, e la grande città, tra le magnifiche sorti e progressive a cui sembravamo tutti destinati, noi nati dopo il boom economico e nella stagione dell’edonismo di massa, e la realtà del rimpicciolimento delle prospettive, dell’avanzare delle disparità, della precarietà che mangia le vite (il “lavoro povero” di cui si parla oggi, che è la più grande offesa alla dignità umana e alla Costituzione). La materia che li lega alla perfezione, tutti, è il filo d’argento della narrazione di Pellegrino e della sua lingua di ombrosa, nitida bellezza. Una narrazione poetica e politica, i cui poli sono concetti fascinosi come «decreazione» (quel disfarsi dell’ingombro e del «pensiero rivendicativo» dell’io, che pure è lucente centro «da cui la scrittura prende voce»), disutilità, disappartenenza, disabitare. Che vuol dire solo rinunciare a essere uno per poter essere moltitudine, canale aperto della vita. Rinunciare a occupare il centro per occuparsi dei margini. E forse, attraverso l’ «immemorare» (nell’accezione di Walter Benjamin) possiamo persino cambiare il passato, dandogli un altro futuro (come, nel libro, quello del Professore; come, grazie ai libri, quello di chi scrive e di chi legge). Allora la narrazione, per Pellegrino, può essere come il bizzarro giardino paterno, come ogni giardino segreto e abbandonato (quello dove vanno a rifugiarsi Milo e il Professore): meravigliosamente caotico, dove tutto convive con tutto, palma e pungitopo, abete e trifoglio, e tutto, ogni linea d’ombra, ogni crepa, ogni cosa perduta, ogni cosa sopravvissuta, costantemente «al confine tra niente e qualcosa», ci parla della nostra infinita, commovente tensione alla luce.