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Addio al regista messinese Walter Manfrè. Il suo «teatro della persona» resta una formula geniale

Non so quanto i teatranti e i giornali italiani renderanno omaggio a Walter Manfrè, regista e prima attore, morto a 75 anni venerdì sera a Cefalù, dove era ricoverato per la degenerazione di una malattia del sangue che lo aveva perseguitato da quando aveva 40 anni. Eppure è stato uno dei più grandi e più innovatori uomini del teatro italiano con spettacoli che hanno fatto storia, ma a poco a poco sono stati parzialmente dimenticati, a favore di chi ha imitato il suo modo di creare il coinvolgimento degli spettatori (senza riconoscenza al “progenitore”), talvolta bene, più spesso male.

Non mi fa velo l’amicizia – cominciata negli anni ‘60 – e la comune cittadinanza (Manfrè era nato a Messina il 27 settembre 1948), semmai mi conforta averne seguito l’evoluzione nella regia fino a quel suo “Teatro della persona” (la felice definizione fu del critico milanese Ugo Ronfani), che lo aveva portato al successo per originalità di intenti e di realizzazioni.

In quello che è un viaggio nei ricordi, vorrei cominciare proprio da «Il viaggio», forse il meno conosciuto e meno rappresentato (anche perché si svolge su un treno vero) dei sette spettacoli che compongono il Teatro della persona. Era il 2002 e scrivevo: «Il luogo è un vagone “parcheggiato” nella stazione di Corsico, appena fuori Milano. Sei spettatori per scompartimento impegnati nel viaggio di un’ora. I rumori del treno, il fischio del capostazione sono realistici, ma in realtà non ci si muove. Sono i personaggi, le situazioni che si alternano nel nostro scompartimento, al ritmo di dieci minuti ciascuno. È come aprire continuamente uno squarcio sulle vite altrui, sulla disperazione e sulle richieste di aiuto che, spesso anche mute, ci circondano. Lo spettatore-viaggiatore guarda, magari sorpreso nel trovarsi dentro lo spettacolo o coinvolto in vicende che lo toccano (nel senso fisico della parola) senza che però trovi la forza per intervenire. È davvero l’indifferenza (se non il fastidio) a prevalere o forse, e penso che sia questo il senso, siamo tutti almeno un po’ disperati e bisognosi d’aiuto? Insomma, anche se i personaggi raccontano di situazioni limite, in qualche maniera potrebbero essere il simbolo di un disagio esistenziale comune a tutti».

Era, lontano da un vero palcoscenico, la possibilità di venire a contatto con le persone più diverse senza uscire dal proprio egocentrismo. Nello stesso tempo l’intensità psicologica, e, nel caso si sfuggisse all’indifferenza, il non poter interagire – c’era comunque un copione – se invece l’emozione riportava lo spettatore alla sua primitiva umanità, creava una forte discesa nella propria interiorità, con sentimenti che vagavano dall’empatia all’odio, dalla comprensione all’antipatia.
Era improbabile uscire da questi spettacoli uguali a come si era entrati. Specialmente ne «La confessione», forse il più noto, e poi «La cena», «Visita ai parenti», «Il vizio del cielo», «La cerimonia» e «Le voci umane», che hanno fatto il giro del mondo. Sempre col diretto contatto tra attore e spettatore, talvolta anche singolo.

Manfrè commissionava i testi ai più importanti drammaturghi italiani del momento: Giuseppe Manfridi soprattutto, e poi, tra gli altri, Edoardo Erba, Rocco D’Onghia, Pia Fontana. Walter aveva cominciato da attore nella Messina senza teatri della fine degli anni ‘60. Aveva lavorato con tanti (anche con Nino Frassica, per esempio), molto con Massimo Mòllica (faceva spesso il “bello”), poi aveva avuto la soddisfazione del nome in ditta in occasione dello spettacolo inaugurale del Teatro in Fiera l’8 ottobre 1977, «Merli e Malvizzi», scritto da Biagio Belfiore e diretto da Andrea Camilleri. Avrebbe potuto continuare una buona carriera di attore e aveva lavorato con registi importanti, ma per lui il testo non era più qualcosa da recitare, ma semmai da penetrare e magari dissacrare.

Ricordo tra le sue prima regie a Messina una «Cavalleria rusticana», in cui lo criticavo fin dal titolo della mia recensione: «Ma Verga era realista». Una cosa su cui abbiamo discusso per anni, anche quando, più che convinto che avesse ragione lui, avevo alzato bandiera bianca. Un altro argomento divisivo erano i bui di scena, ai quali, secondo me, allora ricorreva troppo spesso come espediente di regia. E qui, forse, avevo ragione io.

Presto la sua attività di regista conobbe il successo che meritava. Con la sua direzione hanno recitato attori quali Paola Borboni, Pupella Maggio, Raf Vallone, Nando Gazzolo, Ottavia Piccolo, Paola Pitagora, Giuseppe Pambieri, Giancarlo Giannini, Carlo Delle Piane, Sergio Rubini, Jean Sorel, Moni Ovadia e tanti altri. Poi è stato anche direttore artistico di “Catonateatro” (dal 1989 al 2014), in Calabria, e dell’Ente Teatro di Messina nella stagione 2004-2005.

Fuori da ogni consorteria di potere – quelle a causa delle quali il teatro è drammatico non per definizione ma per croniche mancanze organizzative ed economiche – era tornato in Sicilia, stabilendosi a Comiso dove aveva fondato l’International Theatre Centre, da lui diretto, continuando a creare spettacoli, l’ultimo dei quali, il «Dramma sacro», con Mascia Musy, Luca Biagini e Graziano Piazza, andrà in scena a Vittoria il Venerdì Santo.

Preferiva evitare Messina. Lo spiegò così alla figlia Serena in un’intervista pubblicata dalla testata “Sicilians”: «Un posto dove non mi sarei fermato è Messina: la mia città natale che ho amato visceralmente senza essere ricambiato e che mi sono limitato a scrutare, standole intorno senza quasi più entrarvi. Se si eccettua la parentesi di direttore artistico al Vittorio Emanuele, ho sempre preferito mantenere un minimo di distanza e ne è prova la mia esperienza al “Catonateatro”. Dalla riva opposta guardavo Messina senza che potesse farmi male».

Adesso ci tornerà per i funerali: in fondo anche questa è una conclusione teatrale. Manfrè lascia tre figli: oltre a Serena, Alice e Manuel, quest’ultimo avuto dalla seconda moglie Antonella Nieri alla quale si era molto riavvicinato negli ultimi mesi. I funerali si svolgeranno domani, alle 15, nella chiesa di Santa Maria della Consolata (Don Orione).

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