Che il teatro parli all’intelletto e che la vera creazione, la poiesis greca, in teatro sia quella dell’attore che così diventa l’officiante di un rito, il “nostro” Ninni Bruschetta, messinese, lo pensa da sempre, nella sua lunga carriera in cui, essendo uno dei volti più amati come attore e come regista, tra teatro, cinema e fiction tv (da “Boris” a “Squadra antimafia”, da “Fuoriclasse” a “I cento passi”, da “Quo vado” a “La mafia uccide solo d’estate”, da “Don Matteo” a “Paolo Borsellino. Ora tocca a me”, da “I bastardi di Pizzofalcone” a “Le indagini di Lolita Lobosco” a “I leoni di Sicilia”, solo per citare alcuni dei suoi tantissimi ruoli), si è infilato nella vita degli altri, quegli altri che potremmo essere noi. E lui, abile tessitore di personaggi, mediatore di vite e di sogni, consapevole che l’attore è il ponte tra il testo e lo spettatore, non poteva che scrivere delle “Considerazioni sul mestiere dell’attore e sulla sua funzione sociale”, come recita il sottotitolo di “L’officiante” (Luni editrice) la sua trattazione bella e colta che segue a “Sul mestiere dell’attore” (Bompiani, 2010) e a “Manuale di sopravvivenza dell’attore non protagonista” (Fazi, 2016). “L’officiante”, in cui Bruschetta sa generare emozioni dilatando la parola con la stessa intensità di quando recita, è stato presentato alla Fiera di Roma “Più libri più liberi”; domani alla libreria Bonanzinga alle 18 l’attore farà un firmacopie per i suoi tantissimi fan. Dopo “Sul mestiere dell’attore” e “Manuale di sopravvivenza dell’attore non protagonista”, “L’officiante” riflette ancora sul ruolo dell’attore. Un termine affascinante e impegnativo che risale al significato latino di officium come dovere, compito, funzione. Un valore altissimo. «Esattamente: un valore altissimo, ma anche e soprattutto una grande responsabilità, di cui l’attore deve essere consapevole. Officiare un rito significa chiedere la condivisione di tante persone al cospetto della rappresentazione, e la condivisione, quella vera, fisica, personale è un grande gesto di fiducia, qualcosa di sacro, insomma». Cosa è per te questa trattazione, così piena di riferimenti anche a culture altre come quella orientale, alla filosofia, ai grandi testi teatrali? «È una breve trattazione che riguarda tutta la mia vita e le mie due grandi passioni: il teatro e la filosofia metafisica. Ho trovato innumerevoli analogie e corrispondenze tra il teatro, il rito, appunto, e il pensiero metafisico in generale. Il più grande onore per me è stato poterlo pubblicare con Luni Editrice, che ha in catalogo i più importanti filosofi metafisici del mondo, spesso nella prima traduzione italiana. Parlo di autori come Guénon, Koomaraswamy, Fabre d’Olivet e molti altri». L’attore è l’officiante di un rito, cioè di un’azione simbolica. Un tempo aveva il compito di risvegliare lo spirito del luogo o della situazione. Cosa deve risvegliare oggi? «La stessa cosa, per quanto sia obiettivamente più difficile. La tradizione teatrale ha ormai un ruolo catacombale rispetto all’arte narrativa del cinema, della televisione o della letteratura. E scompare di fronte ai numeri della comunicazione virtuale. Quello che però accade è che uno spettacolo importante, anche se viene visto da un numero relativamente esiguo di persone, riesce ad influenzare la cultura, i costumi e i sentimenti del suo tempo. Come se il luogo in cui si fa il teatro, o si officia il rito, fosse soltanto il punto di partenza, l’origine di una comunicazione assai più ampia e profonda, che passa attraverso il sentire, l’intelletto e che rimane viva per molto tempo». René Guénon definisce il teatro uno dei simboli più perfetti della manifestazione universale. Una verità inoppugnabile. «Il teatro è come il gioco. Tutti sanno che almeno in francese ed in inglese il verbo è lo stesso: jouer e to play significano sia giocare che recitare. E il teatro proprio come il gioco è connaturato nell’uomo. Nessuno insegna a un bambino a giocare, lo fa spontaneamente, così come la recitazione e la rappresentazione sono già qualità umane, prima di trasformarsi in disciplina. Il che significa che il teatro rappresenta l’intero universo, visto dagli occhi di un uomo». Se l’attore è il ponte tra il testo e lo spettatore, nella tua esperienza sia teatrale che cinematografica cosa ha significato entrare in un personaggio? «Come dicevo è un gioco. Un gioco pieno di regole ferree, ma fatto anche di grande libertà. Interpretare un personaggio significa trasferirsi e agire in una nuova condizione spaziotemporale, quindi “essere” il personaggio in quella parte limitata di tempo e spazio che è lo spettacolo stesso. Forse per questo il lavoro dell’attore è considerato il più bello del mondo, perché ti consente di realizzare il sogno di tutti: vivere tante vite». Ritmo, come frutto di equilibrio tra spazio e tempo, ascolto, non affermare se stesso dentro un personaggio: quale deve essere l’azione dell’attore? «Sono tutte queste cose insieme. Ma l’approccio deve essere il più semplice. L’azione dell’attore deve essere solo quella strettamente necessaria alla rappresentazione: “di’ la parola come te l’ho detta io, con agilità di lingua e non segare l’aria con le mani...” dice Shakespeare nell’Amleto. Fermo restando che il virtuosismo nobilita l’arte dell’attore, l’esibizione, la ridondanza, la vanità, invece, la squalificano». A proposito del “mistero” Shakespeare scrivi che il celebre monologo di Amleto è un vero e proprio manuale, un attrezzo di lavoro per gli attori. In che senso? «Proprio perché parla dell’azione pura, disgiunta dal risultato. Parla di azione e di contemplazione, che risultano complementari nel lavoro dell‘attore. E parla, soprattutto, della “pallida cera del pensiero” che offusca l’azione e l’opera dell’uomo, quando si insinua nel nostro percorso, anche quotidiano, quando ci impedisce di distaccarci dalle banalità mondane. Nel lavoro dell’attore il distacco non è una scelta ma una necessità, perché solo liberandosi di sé può far posto al suo personaggio». A chi vuole fare l’attore oggi cosa diresti, oltre che di leggere questo importante manuale? «Direi di fare quello che si fa a scuola: studiare tanto e divertirsi ancor di più».