Sport innanzitutto e calcio in particolare, ma anche Storia e Politica: è tutto questo il libro di Claudio Minoliti «Ferenc Puskás. Il campione dei due mondi» (edizioni Minerva), che traccia la vicenda umana e sportiva di uno dei più grandi calciatori di tutti i tempi, con una ricca appendice fotografica. Minoliti, giornalista messinese figlio d’arte (il padre Licio, attivo alla Tribuna del Mezzogiorno prima di trasferirsi al Nord, è uno dei padri storici del giornalismo sportivo della città dello Stretto), vanta una lunga carriera a Milano, cominciata al quotidiano “La Notte” e poi continuata (con incarichi apicali) e conclusa in varie testate Mediaset.
Ha scritto un libro di piacevole lettura che racconta non solo la vita avventurosa di un campione, ma ci rimanda l’Europa della guerra fredda e della cortina di ferro, coi carri armati sovietici che nel 1956 invasero l’Ungheria (mettendo in crisi anche il Pci, fedele all’Urss), entra anche nella Spagna franchista e mette in primo piano l’intricato viluppo tra politica internazionale e federazioni sportive.
In questo intrigo mondiale, Puskás rimane il protagonista, capace di vivere due vite da campione in un drammatico prima e dopo i carri armati. Lui, colonnello dell’esercito ungherese per meriti sportivi, aveva un sinistro, dolce e potentissimo, che lo aveva reso protagonista nell’Honved Budapest, con cinque scudetti, e nella nazionale del suo Paese, vincitrice nelle Olimpiadi di Helsinki del 1952 e capace di battere i maestri dell’Inghilterra a Wembley addirittura per 6-3. Nel campionato ungherese segnò 357 gol in 354 partite, con la nazionale 84 gol in 85 presenze. Dopo il 1956, lasciò l’Ungheria (grazie al calcio, l’Honved era in trasferta per la Coppa dei Campioni), riuscì a farsi raggiungere dalla moglie e dalla figlia e cercò di sopravvivere, insieme con i compagni dell’Honved, con ingaggi per amichevoli.
Ma presto arrivò la squalifica internazionale, voluta dall’Ungheria, dove era stato dichiarato disertore. Rimase fermo due anni, per la maggior parte trascorsi in Italia, a Bordighera. Cercava di allenarsi, ma a 31 anni era un signore quasi attempato, ingrassato di venti chili, segnalati da una vistosa pancia. Le squadre italiane lo contattarono ma erano perplesse. Nel 1958 lo ingaggiò, invece, il Real Madrid grazie al visionario patron Santiago Bernabéu, che lo impose anche all’allenatore che non voleva schierare un calciatore così grasso.
Lì, invece, cominciò la seconda vita di Puskás, accanto a un altro campione, Alfredo Di Stefano: con grandi sacrifici tornò in forma. Risultato? Con lui il Real Madrid vinse sei campionati e tre Coppe dei Campioni; Puskás realizzò 242 gol in 262 partite e stabilì il record mai eguagliato di 4 gol realizzati in una finale di Coppa dei Campioni. A carriera conclusa fece l’allenatore (nel 1978 anche in Arabia Saudita, precorrendo i nostri tempi). Dopo la caduta del muro di Berlino rientrò a Budapest da eroe. Alla morte, nel 2006, è stato sepolto nella basilica di Santo Stefano che ospita le tombe di santi e sovrani e gli è stato intitolato lo stadio, la famosa Arena Puskás.
Minoliti racconta ricorrendo a flash back, che gli consentono di uscire dalla cronaca stretta per intersecare stati d’animo e vicende personali e sportive con quelle storiche. E poi fa un’altra cosa preziosa: con linguaggio moderno ci riporta ai tempi in cui, senza tv, le partite erano raccontate alla radio o dai grandi giornalisti. Un esempio? Eccolo: «Il capitano stoppa la palla, mentre rinviene rapidamente Wright nel disperato tentativo di fermarlo. Invece, accarezza la sfera con i tacchetti della “pantofola” sinistra, mentre l’inglese continua la sua corsa in direzione opposta. La palla rotolò lieve all’indietro, sempre incollata allo scarpino (…) Una magia: il pallone prima sparisce, poi ricompare in fondo al sacco». Proprio per questa rete, realizzata a Wembley, la Federcalcio mondiale ha intitolato a Puskás il premio per il miglior gol dell’anno. E, se avete socchiuso gli occhi, lo avete visto anche voi.
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