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Quelle “piccole pietre” che segnano la strada. L’esordio dello sceneggiatore e romanziere messinese Mario Falcone in poesia

Se la funzione della poesia, come ha detto il grande poeta Adonis, è riannodare il legame tra linguaggio ed esistenza, per Mario Falcone, messinese, scrittore e sceneggiatore (ha firmato fiction televisive di successo) l’esperienza poetica è un nuovo cammino espressivo ed esistenziale. Temerario, certamente, come ogni volta che si mette l’io sotto la lente d’osservazione all’interno del chiaroscuro dei sentimenti, qui “postati” in versi. Un rincorrersi, quello tra la parola poetica e il percorso di scrittura di Falcone, che fino ad ora aveva privilegiato la forma narrativa, mentre la vita stessa fuggiva in avanti, ondeggiava, sottraendogli tempo e spazio per soffermarsi sul fare poesia.

E invece ecco la sua prima silloge, «Piccole pietre» (La Feluca Edizioni), non un “hortus conclusus” ma una ricognizione dal carattere quasi diaristico per dire incanto e disinganno, malinconie e sogni, indignazione e nostalgia, “piccole pietre” che come tracce o mete segnano la strada che Falcone percorre guardando dentro di sé e alla vita con amorosa spietatezza.

Così, nella penombra della geometria domestica chi scrive pare sostare, in un’epochè dell’anima, davanti a ognuna delle sue “piccole pietre”, come vicino a una soglia da oltrepassare per aprirsi su un passato che sembra un giro di giostra malinconico e un presente che si consuma nello sforzo di salvarsi dalla frane dell’inautenticità. Conflitti, delusioni e amarezze, l’assenza come categoria che ci riguarda tutti, ma anche ricordi, emozioni e sentimenti affidati a un linguaggio antisublime, volutamente concreto e “dimesso”, nell’uso del parlato, con i pensieri che crescendo su se stessi diventano refoli di memorie malinconiche, ramaglie di giorni vissuti ricomposte con il passo lungo dell’andamento prosastico in un bouquet espressivo apparentemente “disordinato”.

Una grafia obliqua con la parola ora contratta ora dilatata e ipertrofica, nessuna ambiguità tra l’io poetico e l’individualità biografica, e le regole del metro infrante per dire sussulti e sospensioni, smarrimenti e fremiti di sogni. Ma è proprio nel labirinto dei nodi irrisolti dell’esistenza, mentre il tempo ingoia spietato affetti e presenze, che la Musa consolatrice «porta in sé un’opzione di salvezza», come scrive nella prefazione Marietta Salvo, celebrata poetessa messinese di lungo corso.
Nella complessa ordinarietà del mondo, «l’assedio continua» e nel deserto dei tartari della routine si rischia di «ammalarsi di solitudine e di attesa», e tuttavia, se la poesia, come diceva Yves Bonnefoy, è la speranza nel linguaggio, tutti i versi cantano la speranza.

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