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Ma ora vi cuntu... Platone! Il bellissimo «Simposio» di Gaspare Balsamo apre il Cortile Teatro Festival di Messina

I grandi, “cattivi maestri” e il loro antichissimo dialogo sull’amore reinventati con una lingua incandescente. Perché il passato è futuro

Ma quand’è che abbiamo perso i maestri? I grandi, i cattivi maestri, i maestri che manco vogliono essere maestri, anzi te lo dicono: non fare come me, non ti permettere. I maestri come quello scassaminchia di Socrate, che andava dicendo – spertu e matricolato – «non sacciu nenti, e tutti m’insignano a ’mmia», e mentre lo diceva ti stava insegnando la cosa più grande che ti potessero insegnare. I maestri come quei poeti là, spiritusi, chi fanno cummedi, tipo Aristofane, o quelli fini, tipo Agatone il tragico.

I maestri come don Masino, scarparo con la passione del cuntu, che cuce tomaie e storie, e affascina ’Asparino, un piccolo Gaspare che non sa niente (ma non come Socrate: come Socrate prima di Socrate) eppure è attratto dalla parola, dalla sua malìa, dalla bellezza e dalla verità (sono la stessa cosa, dicono i maestri, quei maestri) che brillano assieme.
Una storia d’amore – come è evidente – è quella che torna a cuntarci Gaspare Balsamo, cuntista fino e intellettuale in incognito (avete presente Socrate?): lui niente sa, e tutti gl’insignano, a lui.

E lui poi ci racconta come, e stavolta lo ha fatto per inaugurare col botto, con la prima assoluta del suo nuovo spettacolo “Simposio. Il cunto d’amore dei cattivi maestri” (di e con Gaspare Balsamo, luci Stefano Barbagallo), il Cortile Teatro Festival di Messina (17 luglio - 7 agosto), arrivato a dodici miracolose edizioni grazie alla testardaggine (in un cuntu si direbbe tigna) del direttore artistico Roberto Zorn Bonaventura, nello storico cortile settecentesco di Palazzo Calapaj-D’Alcontres (altro esempio di tigna e sopravvivenza, in una città in cui il passato è sempre maceria e spesso oblìo).

Don Masino gli racconta il Simposio (che, lo sappiamo, è una specie di festa d’imbriacuni, con molto vino, molte vanterie, molte chiacchiere e distintivi), quello di Platone, 416 avanti Cristo, e ’Asparino, attore fino, ce lo racconta a noi, con tutte le lingue che lui sa usare, e che noi scopriamo di conoscere. Nello spettacolo-cuntu (ovvero che del cuntu usa strutture e percussioni, affondi e iterazioni, l’impeto da epos e il rummulìo del dramma) li sappiamo, sappiamo che sono nostri e ci appartengono, quei personaggi. Fedro, il bell’Alcibiade, Pausania, Erissimaco, Aristofane, Agatone, Socrate. Anche chi non li ha mai sentiti nominare prima li riconosce, nella scrittura sapitura e sperta di Gaspare Balsamo, che dopo il mare salato di Horcynus Orca (nell’altro suo indimenticabile «Omu a mari», applaudito due anni fa proprio al Festival) ci immerge nel vino colore del mare che scorre a fiumi tra le pagine di Platone.

Costruendo un gioco di scatole (non cinesi, elleniche) e specchi – Platone che cunta cose che non ha visto ma gli hanno cuntato, e don Masino che le cunta ad ’Asparino che le cunta a noiautri che non smettiamo di sentirci cuntati e cuntenti – con una lingua che è una koinè siciliana (l’autore dopotutto è un pan-siciliano: ericino che vive a Catania, ha vissuto a Palermo e torna quando può in riva allo Stretto), Gaspare Balsamo con la grazia guizzante d’un Colapesce s’immerge in un testo antichissimo e lo smonta e lo rimonta, pezzo a pezzo. Bevendo discutevano, quegli antichi maestri, dell’amore: se sia dominio dell’alto o del basso, della mente o del corpo, di Afrodite Pandèmia (no, non pandemìa) o Afrodite Urania, se sia buono o cattivo, se dia più felicità o più disperazione, se appaghi più chi ama o chi è amato.

E tanto la risposta sappiamo di saperla (noi, ignoranti come Socrate): tutto questo assieme. Gioia e dolore.
E così ridiamo, quando ’Asparino ci cunta il “mito dell’androgino”, ovvero l’essere umano originario che era doppio, con quattro braccia e quattro gambe e due sessi e due facce, trasformandolo nel “mito dell’arancino” (correttamente, visto che l’essere mitologico era tondo e meravigliosamente autosufficiente), con un uso della “schwa” finale da applauso a scena aperta (tra i tanti raccolti nei 50 minuti dello spettacolo).

E così ci commuoviamo, quando don Masino c’insegna, cattivo maestro che non è altro: «Quello che c’è da sapere è sempre dentro di te, ti appartiene». Che sia l’alto o il basso, il poeta tragico o lo scarparo, lo sciauru del tuo mare o il fetu delle tue strade (e sui temi “appartenenza” e dunque “identità” fanno più dieci minuti di cuntu che infiniti sproloqui di ignoranti forze politiche). Purché tu sappia nutrirlo, il te stesso ’Asparino incantesimato, in quel crinale tra canuscenza e ignoranza, in quell’inseguire sempre i racconti in cui «batte la ricerca della verità» (i “colpi” del cuntu, che è accento e cesura, che è canuscenza che si comunica dal basso, ma sempre verso l’alto va), in quel cercare e riconoscere i maestri.

Che sono il nostro rovello, amati e odiati (Alcibiade è l’unico che non parla dell’amore: è l’amore deluso, verso il suo maestro Socrate, che parla in lui); specie, ci dice Gaspare Balsamo, in un mondo in cui sembrano essersi interrotti certi canali di trasmissione di sapere e bellezza, e allora dobbiamo lavorare per riaprirli, o rifarli. I nostri maestri che c’insegnano senza parlare, che ci ammoniscono di non scordare mai di sapere di non sapere, e quindi di voler sapere tutto, anzitutto di noi stessi («gnoti seautòn, ’Asparino!»). I nostri maestri che ci sconvolgono con un cuntu pieno d’amore.

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