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Le persone-luogo che ci accolgono e possono salvarci: il romanzo di Claudia Terranova

Fitto di presenze femminili, alla difficile ricerca della felicità

Adele, Flora, Rita, Rosalia, Giulia, Nadia, sono solo alcune delle donne che popolano le pagine di «Oggi è la mia festa» (Kalós), esordio narrativo di Claudia Terranova, già autrice di saggi di filosofia politica. Questo piccolo, potente libriccino emana profumo di glicine, di pietanze siciliane succulente, di pulito, di famiglia, ma obbliga anche chi lo legge a fermarsi e porsi alcuni interrogativi.
Attraverso la quotidianità di Adele si ripercorrono sensazioni familiari. Tornare tutti i giorni a casa, in una casa che non riconosciamo più, che non sentiamo più nostra, attendere che il giorno passi e ne venga un altro del tutto uguale, evitare il nostro inconscio per non fare i conti con noi stessi, con «il rimpianto di una vita diversa, di una chance perduta», rifugiarsi nel passato. L’abitudine è una delle maggiori assuefazioni del nostro tempo e la depressione (diagnosticata o no) è il nostro male, lo capisce bene la figlia ventitreenne di Adele.
Claudia, pensa che le nuove generazioni siano più sveglie, più intuitive, e, al contempo, vogliano fortemente abbattere quei muri di vergogna e tabù che da decenni caratterizzano la nostra società?
«Per fortuna sì. Sono un’insegnante e ho il privilegio di confrontarmi con le nuove generazioni. Si può imparare molto dai giovani se si sa ascoltarli. Non credo di appartenere a quella folta schiera di persone nostalgiche dei loro tempi, che rimpiange la scuola di una volta. Ci sono adulti della mia generazione e di quella precedente che hanno fallito in tutti i campi. Dopo aver indossato gli abiti della rivoluzione li vedi oggi comodamente integrati nel sistema, quello che hanno combattuto in gioventù. Gran parte dei giovani sarà meno politicizzata rispetto al passato, e non la si può biasimare visto gli scenari politici, ma è più aperta al cambiamento, alla diversità. Le nuove generazioni sono più inclusive e poco avvezze alla retorica».
È toccante il passo in cui Adele dice: «Perché oltre a essere una persona dalle infinite qualità, zia Elisabetta era un luogo entro il quale si potevano maturare sentimenti vitali per la crescita e il rapporto con l’altro», forse avremmo tutte e tutti bisogno di una persona-luogo come lei?
«I luoghi non sono solo gli spazi che abitiamo o frequentiamo. Le persone possono diventare esse stesse luoghi che ci permettono di sperimentare emozioni, passioni, delusioni, di conoscere e conoscersi. Io ho avuto la fortuna di avere una zia come quella della protagonista. Da lei ho imparato molto: la solidarietà, la cura, la convivialità. Nell’epoca della povertà estrema, per utilizzare la terminologia heideggeriana, il lascito di zia Elisabetta, per me zia Antonietta, è un tesoro da custodire e tramandare non solo ai miei figli».
Lo scrittore Mikhail Shishkin ha detto che l’unico modo per superare l’odio e il dolore è la cultura; parlava della guerra, ma può valere per i nostri sentimenti personali? Di fatto Adele, anche grazie alla letteratura, supera il suo “stallo”. Quali strumenti si possono utilizzare?
«Condivido il pensiero di Shishkin che dovrebbe valere, a mio avviso, per tutti i conflitti, perché il monopolio della sofferenza non appartiene a un popolo in particolare ma a tutti coloro a cui vengono negati i diritti fondamentali: libertà di pensiero, di parola, di autodeterminazione. Molto può fare la letteratura perché come dice lo stesso Shishkin: la vera letteratura parla sempre del bisogno umano d’amore, non d’odio». Per quanto riguarda gli strumenti di una donna, una madre per sentirsi appagata non credo esistano ricette. Ognuna ha una sua storia, un suo vissuto fatto di scelte consapevoli o indotte. Nella mia cassetta degli attrezzi non devono mai mancare la gentilezza, la condivisione, la gratitudine, l’ascolto e la libertà di essere se stesse».

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