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"Trilogia degli specchi": Michele Ainis, il romanzo e i suoi riflessi

Il rapporto scivoloso tra la memoria e l’identità, l’ossessione del doppio, il gusto per la lingua preziosa ma la pagina asciutta

"Despina". La magnifica "città doppia", una delle "Città invisibili" dipinte da Pedro Cano
"Despina". La magnifica "città doppia", una delle "Città invisibili" dipinte da Pedro Cano

Chissà quante copie completamente diverse esistono, dello stesso libro. Una per lettore, certamente. La lettura, dopotutto, è questione di specchi e di riflessi. Di intenzioni e proiezioni. Di emozioni e ossessioni che s’incrociano, si specchiano l’una nell’altra. Come certe città gemellate da fenomeni di rifrazione prodigiosi, come certe città invisibili – tutte – che ci portiamo nel cuore, nell’immaginazione, e sovrapponiamo, pervicaci e ciechi, alle città che andiamo percorrendo ogni giorno, che costruiamo lungo le rotte dell’abitudine.

Una città per abitante, un libro per lettore, chissà quanti libri, tutti identici e diversi, per l’unico autore della “Trilogia degli specchi” appena uscita per La Nave di Teseo (e che oggi alle 18 sarà presentata al Feltrinelli Point di Messina)... Che no, non è l’arabo pazzo Abdul Alhazred, l’autore inventato di sana pianta da un altro autore, Howard Phillips Lovecraft, con il suo “libro inesistente” per antonomasia, il famoso “Necronomicon”, anche se questo libro sfuggente e desiderato sembra essere oggetto, e poi soggetto, del primo dei tre romanzi raccolti nella trilogia. No, l’autore è il messinese Michele Ainis, costituzionalista di chiara fama e studioso del diritto e saggista, ma anche romanziere indomito col gusto periglioso della pagina come flutto, come trappola, come inganno che finisce per invischiare assieme autore e lettore.

Del resto, si sa, una formula chiave della scrittura sembra essere la stessa da secoli: de te fabula narratur. Così torniamo al gioco di specchi, che correttamente riunisce i mondi difformi e omogenei, contenuti in qualche modo l’uno nell’altro, e l’uno dall’altro germinati, di “Doppio riflesso” (2012), “Risa” (2018) e “Disordini” (2021), i tre romanzi che in fondo – riconosce l’Autore nella nota d’apertura – sono «un unico libro». D’altronde, è verità universalmente riconosciuta che, per quanto possa essere vasta una bibliografia, non si scriva che un unico libro, e a quello si torni, come si torna alle cose migliori che abbiamo, le più fedeli compagne: le nostre ossessioni.

Un libro fantasma, di cui tutti parlano e che nessuno possiede, ma che viene continuamente intravisto, riconosciuto, misconosciuto, ritrovato e riperso: non è forse la storia di ogni racconto che la memoria tesse per noi? Non evoca forse il dominio sdrucciolevole che abbiamo della realtà che ci raccontiamo di continuo, che ri-costruiamo a partire dai nessi, dalle relazioni che stabiliamo tra cose, fatti, parole, volti, forme? Ecco allora che il fantomatico libro di cui si parla nel primo romanzo potrebbe ben essere il romanzo stesso e pure la sua germinazione nella raccolta, il suo sdoppiamento che si fa… in tre (i conti, con la memoria e le narrazioni, non tornano mai). Allora siamo già nel pelago: il punto di contatto, l’omphalos delle tre narrazioni, separate le ultime due da pochissimi anni, ma in fondo ruminate da sempre, anche dentro la lunghissima gestazione della prima, sembra essere – come scrive con chiarezza nella bella prefazione Paolo Di Paolo – il rapporto difficilissimo e vitale tra identità e memoria.

Dopotutto, l’identità è il principale prodotto della memoria, che è ciò che tiene assieme quel che siamo momento per momento, è ciò che impedisce che la moltitudine che siamo deflagri o si polverizzi, dando una continuità a quella cosa che dice «io». Un po’ come fa il narratore, che è garante della tenuta e della congruenza di ciò che va assemblando. Esistere è una narrazione, in fondo, e ci permette di librarci sopra il vuoto, il nulla. Che è l’altro grande protagonista della trilogia, l’insidia costante («Dio ha creato tutto dal nulla, ma il nulla traspare», diceva Valéry): lo specchio vuoto, la memoria cancellata, la pagina bianca.

Addirittura nell’ultimo romanzo, “Disordini” (anche i titoli subiscono, via via, un prosciugamento, come lo stile dell’Autore, che contiene il suo amore per la lingua e le sue fiorite sottigliezze negli argini sempre più severi d’una prosa nitida e “illuministica”), c’è pure uno studioso del vuoto: ad Ainis piace personificare certe sue funzioni, e ossessioni, narrative in esperti che fanno dell’inafferrabile, talora dell’impossibile, una disciplina scientifica. Come la studiosa di “psicosismologia” in “Risa” (che infatti va cercare il suo materiale di studio nella città sismica per eccellenza, dove il terremoto non finisce mai, perché comincia da dentro: Messina).

La cifra scientista e la pulsione enumeratrice s’annodano, nella prosa di Ainis, al gusto per l’assurdo, “la vertigine della lista”: l’elenco partecipa sia della tassonomia che della creazione, ogni elenco è un inventario e un’invenzione. Così come nella sua pagina si fronteggiano – quasi fossero allo specchio, riflessi opposti e indistinguibili – la ragione e l’irrazionale. Il protagonista di ciascun romanzo, pure se solo al primo viene inflitto il pesante carico dell’io narrante (saggiamente fatto fuori negli altri due, quando l’Autore s’è reso conto che non era necessario, per assoggettare comunque il lettore al narratore «nevrotico e bugiardo»), è a suo modo alle prese con un mistero angoscioso: il primo soffre di vuoti di memoria e rincorre di continuo la propria continuità spaziotemporale; il secondo si trova in una città (non a caso Messina) che perde continuamente pezzi, ovvero monumenti, strade, interi isolati che spariscono di colpo senza che nessuno sembri accorgersene; il terzo è vittima d’una pandemia misteriosa e capricciosa che, letteralmente, cambia i connotati di chi viene infettato, e dunque modifica il suo rapporto col passato, con gli altri, con la narrazione e costruzione di sé, stravolgendo il suo e ogni mondo. Tutti e tre cercano il bandolo della matassa, s’imbarcano in ricerche, indagini, narrazioni, con una fiducia illuminista che viene continuamente contraddetta non dai fatti, ma dalla stessa irriconoscibilità dei fatti, dalla mutevolezza delle identità (molti personaggi hanno “doppi” di ogni genere, talora con lo stesso nome, e ogni volta al lettore è chiesto di fidarsi e di diffidare, come fa il narratore sincero e bugiardo), dall’ingannevolezza degli strumenti (per il primo un diario, che dovrebbe essere la prova dell’aggancio con la realtà, si mostra agente di scompaginamento e confusione).

Non c’è documento che documenti, non c’è fatto che consista, non c’è realtà che sia reale. E c’è la parola, che sembra fare chiarezza e invece confonde le acque e in effetti, ogni volta – lo nota con sensibilità Paolo Di Paolo – ci riporta lo sguardo al mare. Sono ambientati sul mare tutti e tre i romanzi, e in qualche modo lo spazio della spiaggia, che come la pagina ospita il confine tra i mondi, e l’enorme generatore di riflessi che è il mare, coronato dal suo doppio, il cielo (qui sullo Stretto implicato in un ulteriore gioco di rimandi, doppioni, riflessi e dualità), è luogo in cui, brevemente, tace l’inquietudine divorante che è la vera molla dei protagonisti e del narratore. Certo, anche lì l’occhio del visitatore (poco importa se sia chi scrive o chi legge: è la natura del “Necronomicon”, ovvero di ogni libro: ciascuno legge e riscrive a suo modo) non si acquieta, comincia a riconoscere figure nelle nuvole, forme nella schiuma, disegni nella disposizione delle pietre, degli scogli…

È la maledizione meravigliosa del segno, l’intento che scrive il mondo. Anche la pandemia diventa campo semantico da ripercorrere col racconto della strana “malattia del cambio di volto”, e l’impazzimento sociale, il confinamento, il distanziamento psicologico prima che fisico, il passamontagna-mascherina che scherma e confonde le identità: qual è il confine tra proteggersi e farsi la guerra? E allora rieccoci alle “Città invisibili” e al debito d’amore e riconoscenza che Ainis tributa ogni volta a Calvino: la “città doppia” – “Risa”, che sembra accogliere ciò che da Messina si stacca e precipita e fugge, ma anche la città gemella di “Doppio riflesso”, che si specchia nella dirimpettaia senza che l’immagine riflessa esaurisca né l’una né l’altra – forse è ogni pagina, forse è ogni libro, forse è ogni lettore, ogni autore.

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