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Andò a Taobuk: il cinema? Non è inganno ma una invenzione salvifica per l’uomo

Secondo il regista la verità della settima arte sta nella possibilità di dare altre visioni della vita

Lavora «Solo per passione» ma gli piace «La stranezza». Un gioco di parole per presentare il regista palermitano Roberto Andò con i titoli degli ultimi suoi due lavori, la miniserie tv dedicata a Letizia Battaglia e il film, nelle sale il 28 ottobre, con quella strana, è il caso di dire, accoppiata che mette insieme Toni Servillo e Ficarra e Picone. Ovvero Pirandello e due teatranti piuttosto strampalati. Andò stasera al Teatro antico (ore 21,30) riceverà il Taobuk Award, durante una serata di gala in cui verranno premiate le eccellenze nella letteratura, nella scienza, nel teatro, nel cinema, nell’arte.

Parliamo della verità: la pratica, la sfiora, la ignora?
«Tutti abbiamo una tensione verso la verità che ci ispira, ci guida, anche se intorno a noi ne vediamo ben poca. Personalmente, per il mestiere che faccio, la verità è una fonte di ispirazione perché tutti noi abbiamo la necessità di scoprire la verità dietro le apparenze. Cresciuto in Sicilia, ho sempre avvertito nelle varie fasi della mia vita, quanto sia fondamentale la capacità di discernimento della verità, in mezzo a tante cose che le somigliano ma non lo sono. Non è un caso che Pirandello ne abbia fatto il fulcro della sua vicenda di scrittore, della sua filosofia».

Il cinema è un inganno, in cui realtà e fantasia si sovrappongono come in un doppio fondo.
«Cinema non significa inganno, è invenzione ed è pure una forma di salvezza perché l’uomo ha bisogno di altre storie, oltre alla propria. L’inganno ci può essere: nei miei film ci sono dei personaggi che sfiorano l’impostura, oltre la verità. Il cinema è il desiderio di narrare storie per immagini, un desiderio che ha a che fare con la verità: la possibilità di raccontare anche la menzogna, in qualche modo serve a definire la verità».

Lei ha frequentato un gran bugiardo, Federico Fellini.
«Fellini era un genio assoluto. Pur essendo venuto fuori dal neorealismo – era stato sceneggiatore di Rossellini – è approdato a una visione del mondo che si può definire romanzesca. Ha preferito raccontare quello che potrebbe essere, non quello che è, quindi la visione, il sogno, l’invenzione. In questo senso è stato un grande benefattore perché raccontando certi aspetti della vita ha reso l’umanità più ricca: chi si serve di una dimensione fantastica non è un bugiardo ma una persona che ci permette di beneficiare della sua immaginazione, una grande fonte a cui attingere. La verità della letteratura e del cinema sta proprio nella possibilità di dare altre visioni della vita, di entrare in vite di altri. Sono stato molto amico del regista Francesco Rosi: con il suo cinema ha cercato il più possibile di avvicinarsi alla realtà, cercando di decifrare i fatti politici del Paese. Un altro modo di raccontare storie, il suo. Ci sono due declinazioni possibili di ricerca della verità: c’è chi inventa e manipola la realtà e chi attinge alla realtà. Quello che è terribile è che questo senso di verità non si ritrovi nella cosa pubblica, un mondo lontano della verità. Viviamo immersi in un eccesso di social, internet, fake news. Un labirinto in cui ci siamo cacciati che allontana dalla verità».

Verità che, invece, Giovanni Verga, di cui ricorre il centenario della morte, pretendeva.
«È stato un grande maestro della letteratura siciliana. Nel 1920 Pirandello andò a festeggiare i suoi 80 anni ma lui si astenne da quelle celebrazioni in polemica con la società catanese che lo aveva ignorato. Nel suo discorso Pirandello fece una distinzione tra “scrittori di cose” e “scrittori di parole”: un messaggio indirizzato a D’annunzio che inserì nella seconda categoria, mentre Verga lo collocò nella prima, e più feconda, sezione. L’eredità di Verga è proprio la capacità di trasportarci su un piano di realtà».

Chi può dire cosa sia vero? Si è sempre chiesto Pirandello.
«Penso che ci sia una specie di linea tragica della letteratura siciliana, a cui non è estraneo Giuseppe Tomasi di Lampedusa, il quale sosteneva che la verità è “l’ultima e la peggiore interpretazione di un fatto”: una professione di scetticismo, un pensiero tragico che non vede la possibilità della verità. In un certo senso Pirandello è nella stessa posizione: nei “Sei personaggi” troviamo l’esposizione più sofisticata di un mondo in cui ognuno è depositario di una realtà che non è condivisibile con gli altri. Anche in Pirandello esiste un senso di tensione verso quella verità che non ritiene possibile. Lo scrittore agrigentino ha attinto ai filosofi tedeschi ma da giovane andava a sentire le cause in tribunale ad Agrigento, e poi correva dal bibliotecario della Lucchesiana a farsi raccontare vicende in cui ritrovava il senso paradossale della vita. Pirandello, che ha descritto un mondo di maschere, è diventato un aggettivo, pirandelliano, utilizzato per spiegare l’impossibilità di fare i conti con la realtà».

Al cinema e in tv, la Sicilia è schiacciata in un’unica dimensione che non corrisponde alle tante facce che ha.
«Bisogna distinguere perché ci sono dei buoni film e magari delle fiction che, per semplificare, hanno mostrato in maniera convenzionale la Sicilia, dandone una rappresentazione piatta, fondata sul luogo comune. Però cosa vuoi dire di un luogo come Palermo dove i presidenti di seggio hanno disertato in massa? Così la Sicilia rischia di diventare l’immondezzaio dell’impero. E invece potrebbe essere qualcos’altro».

Ha detto tutta la verità?
«Chissà…». (*anfi*)

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