Un’opera complessa, che ci conduce in un viaggio nel labirinto della psiche dell’uomo di oggi e degli anni Quaranta, il periodo nel quale Tennessee Williams scrisse “Un tram che si chiama desiderio”, vincitore del Premio Pulitzer nel 1948. Un pilastro della drammaturgia americana del Novecento che punta l’attenzione sul malessere dell’individuo e della società, velato dall’incombere di codici costrittivi cui uniformarsi. I personaggi si rifugiano in universi paralleli e si difendono con una reattività violenta all’oppressione e allo squallore del proprio orizzonte esistenziale. Sarà rappresentato questo fine settimana al Teatro Vittorio Emanuele l’adattamento teatrale curato dal maestro Pier Luigi Pizzi, qui regista e scenografo, che firma un allestimento originale e coraggioso dell’opera, che sarà interpretata da Mariangela D’Abbraccio nel ruolo di Blanche Du Bois e da Daniele Pecci nel ruolo di Stanley Kowalski.
Abbiamo intervistato i due interpreti per farci guidare nella lettura dell’imminente messa in scena.
Mariangela D’Abbraccio, come ha affrontato il personaggio di Blanche, un ruolo così sfaccettato e contraddittorio di donna fragile, provocatrice, dolente, appassionata, disincantata?
«È così, questo ruolo è complesso e ha anche un arco di tempo molto ampio da portare fino alla fine; ti chiede veramente l’anima e io la sera ne esco distrutta. Ho voluto portare in scena qualcosa di poetico, nel senso anche tragico e autodistruttivo. Blanche ha un animo sensibile che contrasta con la violenza della società da cui vuole staccarsi, cosa che può essere dannosa per sé e gli altri, ma che esprime la ricerca della bellezza nel mondo, lei dice “A me non piace la realtà, voglio la magia”. Questo credo sia il nucleo, il senso di un personaggio che è simbolo della delicatezza e della poesia calpestate dal mondo».
Ed è una vittima?
«Sì, di se stessa e degli altri, della vita che la schiaccia. Nel testo si dice: “Aveva più fiducia negli altri, di tutti quanti” e nella scena finale che lei ha “ sempre avuto fiducia nella gentilezza degli sconosciuti”. Lei si fidava, era pronta ad accogliere il mondo, si dava, non sempre si può affrontare il contesto a petto scoperto perché prima o poi, verrai colpito».
Sensibilità fino alla follia, intesa come straniamento ?
«Sì, la follia arriverà per Blanche come perdita di contatto con la realtà, non lo vedremo in scena perché lei viene portata via prima, ma arriverà alla follia, intesa come difesa, come perdita di sé, come una forma di disperazione».
La sua è un’implosione verso la violenza che subisce?
«Lei subisce in scena una violenza fisica molto esplicita, ma nella vita come donna ha subito violenze di tutti i generi, si racconta che si è sporcata per disperazione, si è data, ha provato i momenti più bassi, perché distrutta per la morte del marito, per il modo con cui ha saputo la sua verità, per il fatto di sentirsi responsabile di quella fine. E comincia a farsi del male, a toccare il fondo, a cercare aiuto negli altri, lei dice “Il mio cuore e vuoto”. Niente la sazia più».
Ed è pesante la violenza di Stanley...
«È la violenza di un uomo concreto, che lavora in fabbrica; rude, materiale, insensibile che non sopporta di vedere in casa una persona diversa da lui. Blanche è un’ insegnante, colta, appartenente ad una famiglia benestante, importante, lei snobberà la scelta della sorella( che è una donna pratica e senza pretese) di vivere in una condizione così bassa, esaspererà quella differenza e Stanley reagirà a questa umiliazione violentemente».
Parliamo della regia e scenografia di Pier Luigi Pizzi?
«Lui ha fatto un lettura rispettosa del testo, non lo ha stravolto, nonostante l’opera sia attualissima nei contenuti, presenta degli aspetti secondari che non incidono; in fondo sono passati tanti anni e lui ha effettuato uno sfoltimento per attualizzare la pièce. Ma la cosa veramente innovativa è la scenografia, grande e che lascia il segno, sul palcoscenico ci sarà un bunker grigio con delle scale che lei scenderà come se andasse verso l’ inferno, il suo, da cui non uscirà mai come prima. Questa scenografia che sembra spiazzante, aderisce in realtà benissimo a tutto lo spettacolo».
La sua vita è stata dedicata al teatro, ma che emozione prova a calcare le scene in questo tempo?
«La cosa che provo soprattutto in questo periodo è veramente un’ emozione, nel vedere quanto il Teatro sia importante per le persone che lo hanno scelto e non lo mollano mai. Si dice che non lo vede nessuno e invece non è cosi, questa pandemia mi ha fatto capire quanto sia forte il legame del pubblico con il Teatro. È pazzesco vedere le sale così piene, mi rendo conto che questi anni dedicati al Teatro non sono stati sprecati, sono stati fatti per qualcuno, che ama quello che facciamo, che sopporta due ore con la mascherina per avere questo contatto magico che c’è tra il pubblico e chi viene a raccontare una storia».
Daniele Pecci, come ha affrontato il ruolo di Stanley?
«Questo ruolo poneva una difficoltà di ordine pratico perché il personaggio in realtà è più giovane di quanto sia io, per cui ho fatto un lavoro sul corpo particolare, visto che appaio in scena quasi sempre piuttosto svestito. Per il resto si tratta di un ruolo poco generoso, l’interpretazione di Marlon Brando ha reso il personaggio mitico, ma il ruolo, soprattutto in teatro, rende la figura bidimensionale. Stanley ha un ruolo funzionale importante nel senso che senza di lui l’opera non va avanti, è indispensabile per un solo motivo, che è il carnefice di lei. Io ho quindi cercato di dare fondo alla sua cattiveria, però credo di avergli dato anche una sfumatura, involontariamente da parte sua, comica, perché il personaggio suscita risate per la sua ottusità. Questo è l’unico elemento di diversità».
Dalla storia emerge il tema del lato oscuro dell’uomo e della società, un elemento ancora attuale.
«Io credo che per la violenza domestica, come la sopraffazione sulle donne così come sugli uomini (in realtà Stanley picchia la moglie ma anche altri ), sia ancora presente oggi in alcuni ambienti. La violenza fisica e psicologica , nonostante i cambiamenti in positivo della società dagli anni ‘40 ad oggi, ad esempio sul fronte dei diritti delle donne, il fenomeno della sopraffazione sia ancora presente. E anche nell’interpretare questo ruolo ho voluto rendere il mio personaggio contemporaneo».
Dagli anni Novanta si è dedicato molto al teatro misurandosi con autori giganteschi come Shakespeare o Pirandello, cosa rappresenta il Teatro per lei?
«Il Teatro è un grande rito attraverso cui l’uomo, più che in altre ambiti e modi, può conoscere se stesso. È una missione indispensabile come se fosse la cosa più importante del mondo per me; senza “lo specchio” del Teatro, per usare parole care a Shakespeare, l’uomo non saprebbe chi è; il Teatro è un tipo di auto rappresentazione e compagnia consolatoria e molto patetica, nel senso più alto e grande. Nella sua solitudine, l’uomo cerca di capire la propria essenza e dare risposte alle domande fondamentali come quelle sulla malattia, la morte, la guerra. Per me il Teatro è una passione, il luogo dal quale ho avuto la prima suggestione e la ragione per tentare di fare questo mestiere, l’attore; è il mio dolore, la mia gioia, la mia tensione costante. Ad ottobre festeggerò 33 anni di Teatro, questo è il luogo in cui mi muovo, in cui ha senso quello che faccio. E oggi, di sogni ne ho ancora tanti, penso al repertorio dei classici. Ho degli obiettivi, qualcuno è stato raggiunto, altri ne mancano...».
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