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Consolo, lo spasimo e il sorriso del gigante siciliano della letteratura

Celebrazioni da Milano all'Irlanda alla Sicilia con incontri, conferenze, trasmissioni radiofoniche e pubblicazioni sul giornalista e saggista santagatese

Vincenzo Consolo. Nato a Sant'Agata Militello il 18 febbraio 1933, morì a Milano il 21 gennaio 2012

C’era qualcosa che assomigliava alla felicità nella foto del 1982 di Giuseppe Leone a un trio d’eccezione: Leonardo Sciascia tra Vincenzo Consolo alla sua destra e Gesualdo Bufalino alla sua sinistra. Lo scatto in bianco-nero del fotografo siciliano dove la luce disegna dettagli e moti del corpo e dell’anima, congela un momento indimenticabile vissuto alla Noce, la casa di campagna-mito di Sciascia, fermando il sorriso aperto dei tre giganti siciliani della letteratura che hanno scavato nella sostanza dell’esistenza umana, negli interstizi delle storie del mondo e delle loro ombre.

[caption id="attachment_1391281" align="alignnone" width="300"] Vincenzo Consolo, Leonardo Sciascia e Gesualdo Bufalino, 1983 ph. Giuseppe Leone[/caption]

E uomo di scavo costante è stato Vincenzo Consolo, nato a Sant’Agata di Militello (Messina) il 18 febbraio del 1933, vissuto a Milano dal 1968, a leggere da lì, attraverso l’ottica della lontananza verghiana, il mondo di là/di qua dello Stretto (ma un paese, il suo, è per sempre, pensava) e scomparso il 21 gennaio 2012.

Un decennale celebrato da Milano, con la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori e l’Associazione “Amici di Vincenzo Consolo”, all’Irlanda alla Sicilia con incontri, conferenze, trasmissioni radiofoniche e pubblicazioni che ricercano nella poiēsis consoliana. Tra queste ultime, da ricordare, “Tra il sorriso e lo spasimo. Per Vincenzo Consolo, poeta e profeta” (Armando Siciliano Editore, 2022), con introduzione di Maria Attanasio e contributi di studiosi e amici di Consolo. Senza tacere il Meridiano Mondadori curato da Gianni Turchetta (2015, introduzione di Turchetta e di Cesare Segre), e, sempre di Turchetta, la ristampa di “La Sicilia passeggiata” con le fotografie di Leone e di “«E questa storia che m’intestardo a scrivere». Vincenzo Consolo e il dovere della scrittura” (Mondadori, 2019), un’immersione nell’«officina di parole» dell’Archivio Consolo, come scrive Salvatore Ferlita (cfr. la Repubblica, 15/01/2022), tra manoscritti, articoli, lettere dello scrittore lunghi più di mezzo secolo, dal 1960 circa al 2012.

Ha nel suo palmarès, un racconto, “Un sacco di magnolie”, pubblicato sulla rivista “La parrucca” nel 1957, il trentenne Consolo, quando esordisce nel 1963 con “La ferita dell’aprile” (Mondadori), romanzo con cui si è assunto la responsabilità del potere gramsciano della lingua, che serviva a demistificare la lingua del potere. Perché nel borgesiano sogno guidato della letteratura è stato dirompente affidare a una lingua umana benché difficile nel suo impasto creativo, anzi complessa, proprio perché umana, il chiaroscuro di una scrittura sperimentale.

Una lingua lirica e fisica insieme, mescidata di locuzioni dialettali, di lessici famigliari e “popolari” e lemmi dell’italiano colto, dimenticato, un umanesimo linguistico che accende la fiamma di una storia apparentemente “paesana”, ma sovversiva nel demistificare gli inganni della storia, «una sovversiva scrittura della presenza- scrive Maria Attanasio- profondamente coinvolta nella concretezza del fare, per dare ragione e nome all’umano dolore»: con il giovanissimo io narrante Scavone, orfano di padre e ospite di un collegio religioso in un paese galloitalico nebroideo della Sicilia, che sullo sfondo di fatti come Portella della Ginestra, il colera a Palermo, l’eruzione dell’Etna, e le elezioni del 1947, vive la sua “formazione”, la ferita del passaggio alla “maturità”, emblematizzata dalla “ferita” politica del 18 aprile 1848, con la presa di coscienza che il passaggio segna la fine del ribellismo giovanile, la caduta della speranza di un mondo diverso e l’ingresso nel conformismo degli adulti.

«Un gioco di maretta, la vita» pensa Scavone alla fine della storia che «s’intestarda a scrivere», per il quale è necessario avere l’occhio, «sbagliare il tempo, per ansie o dubbi o titubanze, significa farsi pigliare sotto, e travolgere, e sbattere nel fondo». E allora nel successivo romanzo del 1976, “Il sorriso dell’ignoto marinaio” (Einaudi) che fissa la statura e il successo di Consolo, nel sorriso enigmatico, didimeo, dell’ignoto marinaio del ritratto di Antonello da Messina, c’è tutta la consapevolezza del barone di Mandralisca, Enrico Pirajno di Cefalù, malacologo liberale e illuminista, dell’insensatezza della sua cultura di “alletterato” per i problemi delle classi subalterne.

Personaggio a lui speculare, il rivoluzionario avvocato messinese Giovanni Interdonato, fuoruscito quarantottesco che si oppone ai Borboni in questa storia-dittico, che prendendo le mosse dalla sommossa contadina di Alcara Li Fusi del 1860, mette in scena il Risorgimento tradito. Ed è la chiocciola, «sotto alla quale c’è la terra, la materia», che ci aiuta a capire il mondo, la cui spirale, funzionale alla «palinsestica» o «palincestuosa» costruzione narrativa consoliana, diventa metafora delle aporie della storia, delle illusorie magnifiche sorti e progressive.

Da allora, per uno come Consolo «che- come il suo Scavone- vuol riflettere e vuol capire questo mare grande e pauroso», «fermarsi a pensare a ricordare» (benché Scavone tema che ciò sia «segno di babbìa»), dividersi cioè tra grandi romanzi e saggi e giornalismo militante (con i suoi articoli a incidere nella carne viva dell’attualità, dai missili di Comiso ai migranti alla difesa dell’ambiente e dei diritti umani, alla cronaca di processi a mafiosi), è un impegno civile ed etico, un andirivieni tra i secoli, dal Settecento al Novecento, nella Sicilia, Medusa e Persefone tra “olivo e olivastro”: da “Retablo” (1987, Premio Grinzane Cavour), un polittico narrativo definito da Sciascia “un racconto come un miracolo per quel che si svolge e per come è scritto” al corale, notturno “Nottetempo, casa per casa” (1992, Premio Strega), dalla colta favola “Lunaria” con la luna a «lanciare le sue molliche» ai poveri umani (1985, Premio Pirandello), a “Le pietre di Pantalica” (1988) con i «cieli impassibili e beffardi» incombenti sulla storia immota, a “Lo Spasimo di Palermo” (2020), una sorta di testamento narrativo dell’autore, con il ritorno agognato e sconsolato alla Sicilia, insieme Itaca ancora sconquassata dai Proci e Tauride desolata in cui gli innocenti vengono sacrificati.

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