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Vizi, virtù, trappole, passioni, disincanti: Giuseppe Marchetti Tricamo racconta la “Sciabica”

Un libro straordinario, quello di Giuseppe Marchetti Tricamo, messinese che non ha mai smesso di amare la propria città

Un libro-mondo: è quello di Giuseppe Marchetti Tricamo presentato lunedì scorso a Roma nella sede della Fondazione sul giornalismo italiano “Paolo Murialdi”. L’ultima opera e primo romanzo dello scrittore messinese si intitola “Sciabica. Storia siciliana di vizi, virtù, trappole, passioni e disincanti” edizione “I Sicomori” di Ibiskos-Ulivieri. Il significato del titolo è ben fissato da uno scritto di Melo Freni che è stato invitato all’evento a cui hanno partecipato il critico letterario Arnaldo Colasanti, il regista Rai Michele Guardì e la giornalista e accademica Rossella Savarese e come moderatore Ginacarlo Tartaglia. «Sciabica – scrive Freni – nel gergo dei nostri pescatori è la rete che dal fondo del mare tira a riva il diverso pescato rimastovi impigliato... Ebbene, il pescato di questo interessante testo è frutto di una lunga e copiosa tirata, dove tutto è in funzione di un originale risultato, frutto non solo di ricerca storica, ma anche costrutto formale, che caratterizza il testo per il suo originale tessuto narrativo».

In “Sciabica”, Tricamo fa a se stesso e a noi, un dono inestimabile, con un’opera che resterà nella storia della narrazione della città. Emerge prepotente Messina come città della memoria dell’autore e come spazio idealtipico di letteratura e di storia. Disegna con elegante scrittura una topografia affettiva che lega luoghi e momenti significativi con la legenda affidabile della storia. Troviamo il cuore pulsante di “Cairoli”: «Era in quella piazza che viveva la città. La piazza dei bei palazzi liberty, del cinema Peloro, dell’albergo Trinacria delle dolcerie di cannoli, torroni, pignolata e frutta di mandorla». La piazza con il ritrovo Irrera, gli strilloni di “Gazzetta” e “Tribuna”, le arringhe di politici nei comizi elettorali...

La città è anche scenario del racconto in cui si muove la famiglia di nobile lignaggio dei de Guevara, con don Pietro e il nipote Filippo (figura quest’ultima autobiografica), fortemente radicati in riva allo Stretto come suggerisce l’incipit del libro: “In Sicilia. A Messina. Sulla strada del Faro. In riviera Paradiso”. Da quel mare Filippo un giorno partirà ma senza lasciarla sul serio l’Isola, quel giovane appassionato di giornalismo, infervorato al circolo Merli e Malvizzi: «Da quella terra non si scappava… nella sua valigia l’intera isola e la voglia di raccontarla» . E don Pietro lo troviamo intento a risolvere un enigma legato ad un messaggio da parte del nonno Saverio, custodito dal notaio Saverio Manciaracina. «Non immaginava, don Pietro, che quel plico gli avrebbe causato notti d’insonnia e giorni d’inquietudine… leggeva, leggeva, e rileggeva il testo vergato da mano sapiente su una carta antica». L’enigma che lambisce un misterioso dipinto, sarà svelato nella villa Belviso dove l’illustre messinese avrebbe trovato la chiave di quel rebus e trovato un tesoro, non solo di gemme, ma anche di parole che sarebbero servite a illuminare la vita.

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