"Cercare la bellezza, ritornare al Rinascimento". Plàcido Domingo dirige Rigoletto al BellininFest
«Cerco di respirare con chi canta». Così, nella partitura di Rigoletto di cui è stato sia il Duca tenore che il baritono del titolo, si può sentire l’osmosi tra la visione del direttore e il pensiero dell’interprete. E l’uno che incide nella scelta musicale dell’altro. Sarà questa sintonia, la scala cromatica tra podio e palco, a fare di Plàcido Domingo l’immenso uomo di teatro che è. L'approccio. Il modo di trattare il materiale orchestrale e vocale connesso alla sua interminabile storia di artista rotondo. Nato e cresciuto in teatro, tra la Zarzuela di mamma e il violino di papà, quello del Maestro è il destino dei figli scritto nei progetti dei padri. «I miei genitori mi hanno dato una doppia vita: messo alla luce e dato la musica. Per poco non sono nato in teatro, mia madre ha lavorato fino al nono mese. Ho sempre ammirato i ritmi di lavoro dei miei genitori che arrivavano a due, tre recite al giorno. Per loro erano normali, per me naturali. Stavo ore ad assistere alle prove, non volevo mai andare a dormire per esserci. E poi, crescendo, quel mondo si è trasformato, attraverso lo studio, nel mio lavoro per sempre. Un sogno! Lì dentro ci intendiamo tutti, quel mondo è casa». Casa com’è la Spagna natale, il Messico adottivo, la Sicilia elettiva. La prima strada che portò Plàcido Domingo nell’Isola fu a Vizzini, per Cavalleria Rusticana di Zeffirelli. Era Turiddu, picciotto dal tragico codice d’onore, quintessenza del verismo letterario ed operistico. «Fu un battesimo del fuoco immedesimarmi nel colore e nel calore mediterranei di una terra così vicina alla Spagna di cui sono figlio, eppure così diversa. Non ho mai dimenticato quel cielo, quell'aura mitica, ancestrale. Sapevo di trovarmi nella patria di grandi tenori: Giuseppe Di Stefano e, prima di lui, Giuseppe Anselmi, il fuoriclasse che rivaleggiò con Caruso». Ma quella di stasera (replica venerdì) è la prima volta dal vivo davanti al pubblico siciliano. «Avrò il privilegio di esibirmi nella cavea del Teatro Antico di Taormina, dove dirigerò il grande Leo Nucci che interpreterà Rigoletto e che ne curerà anche la messa in scena». Verdi al BellininFest: l'ispirazione, il riferimento, il belcanto. Le melodie lunghe lunghe come un "cuntu" a voce spiegata, su una linea marcata. C'è dentro una Sicilia identitaria... «Senza Bellini non avremmo avuto Verdi. Verdi ne ammirava incondizionatamente l’innovativa drammaturgia. La Sicilia deve essere orgogliosa di questo genio che ha fatto il melodramma. Questo allestimento omaggia le affinità con gli antesignani e i successori del Cigno catanese che a lui devono tantissimo. Perciò sarà interessante vedere un cartellone che a Rigoletto abbina la Norma che amo». Quello con Pollione, nel 1981 al Metropolitan di New York al fianco di Renata Scotto, fu un incontro cruciale… «Questo proconsole romano che si riscatta attraverso il sacrificio di sé e si immola con l'amata Norma in uno dei finali più sublimi ed esaltanti della storia della musica è meraviglioso e interpretativamente importantissimo per me per affrontare poi altri grandi ruoli. Ricordiamoci che il coro “Guerra guerra” di Norma è stato l'inno del Risorgimento prima di “Va’ pensiero”. Dall'implorazione “Deh, non volerli vittime”, che conclude il capolavoro belliniano, discendono quelle progressioni armoniche che sarebbero levitate nel Tristan und Isolde di Wagner. Riconosciamo dunque il primato del genius loci di cui il Bellininfest intende testimoniare il valore globale». Certe scelte imposte dalla tradizione possono cedere il passo ad una lettura più moderna, ripulita? Ad un nuovo “originale”? «Dobbiamo riscoprire e rispettare il compositore, senza piegare il canto al nostro piacimento, senza entrare nella filologia più esasperante che può diventare troppo di nicchia. Ma soprattutto, senza mai creare una dicotomia tra quanto musica e libretto esprimono e quel che accade sul palcoscenico. Ricercare il bello. Tornare al Rinascimento». L'operazione di rilancio come si esegue? «Senza marketing o regie che snaturino la bellezza straordinaria che questa forma d’arte possiede. Vincendo il pregiudizio che non sia uno spettacolo per giovani. Portare i ragazzi a teatro, fargli vivere la meraviglia di musica, canto, teatro, architettura, danza che si fondono… insomma l’opera! I ragazzi hanno una sensibilità straordinaria, recepiscono queste suggestioni». Punte di metallo dove c'era il velluto. Il terremoto nel Suo Messico, la pandemia che ha cambiato la voce Sua e del mondo. E, nelle tragedie, il dono della “lentezza”, del sapersi fermare... «Le privazioni ci hanno fatto gustare una normalità che non è routine, sa di vita vera. Ma certe tragedie lasciano ferite che anche dopo anni non sanno chiudersi. In quel terremoto ho perso quattro dei miei famigliari oltre che amici cari. Fu una catastrofe naturale, di quelle forze a cui l’uomo non può opporsi. In Italia, in Sicilia, a Messina sapete com’è. La pandemia invece spero ci lasci la responsabilità davanti al nostro pianeta che purtroppo sta cambiando… basta vedere il clima. È un dovere verso i giovani che sono la vita, il futuro». Ottant’anni di scena. Oggi c’è lo sguardo fisso sul tantissimo ieri e l’altrettanto domani. Di un Domingo mai “placido”.