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Il diritto e la giustizia nel costante rapporto con la società che muta. Il prof. Zagrebelsky a Taobuk

La virtù del dubbio, non quello nichilista, ma quello che costruisce

«Il diritto deve impastarsi con la realtà sociale, a pena della sua credibilità. Per chi pratica il diritto come per chi lo insegna come pure per gli studenti che lo apprendono, dovrebbe esserci questa apertura all’humus delle esigenze sociali». È questo il punto su cui insiste il libro “La giustizia come professione” (Einaudi) del giurista, già Presidente della Corte costituzionale, Gustavo Zagrebelsky, una vita trascorsa tra insegnamento (il suo appello ai giovani è costante e forte) e applicazione quotidiana dell’etica del diritto.

E il volume, di cui ha conversato con il professor Giovanni Moschella, prorettore dell’Università di Messina, guida il lettore in maniera chiara nell’affascinante mondo del diritto di cui si raccontano natura e simboli. Già, i simboli, perché niente come la giustizia è stata nei secoli rappresentata coi simboli. E non c’è società, non c’è stata epoca – ha ricordato il professore Zagrebelsky – che non abbia usato come simbolo della giustizia la figura femminile. Forse perché la donna, in stato di minorità per secoli, rappresenta colei che resiste all’ingiustizia ed è portatrice di valori positivi. Ipocrisia del mondo maschile, creatore di tale rappresentazione, ma deciso a mantenere l’esclusività dell’amministrazione della giustizia, se si pensa che le donne sono state ammesse all’avvocatura solo nel 1960 e alla magistratura nel 1962.

«Viviamo in un’epoca in cui le donne avanzano la pretesa di partecipare alla vita politica e sociale, e di uscire dagli standard di madri e mogli in cui per millenni sono state collocate, fuori dalla gestione sociale, tranne quella della famiglia. Ci siamo privati per tanto tempo delle virtù sociopolitiche delle donne – ha detto Zagrebelsky –, indicando nella rivoluzione femminile l’ultima grande rivoluzione dell’ultimo secolo, se per rivoluzione s’intende ciò che è capace di sovvertire un sistema e cambiare le strutture profonde».

Ma il maggior pregio del volume del giurista è la virtù del dubbio, un habitus della sua visione etica del diritto; non il dubbio nichilista – lo ha ripetuto – , ma quello che sostituisce alla acriticità, alla visione del diritto puro e dogmatico, la possibilità di un altro punto di vista. Riafferma con forza, il professore, l’esigenza che il diritto incroci la psicologia e la difesa dei diritti umani insieme a quella dei beni comuni. Insomma, se la legge smarrisce il diritto – come insegnano le pagine immortali dell’Antigone di Sofocle – , se la legge invade il campo della privacy (il riferimento è alla questione tanto discussa delle intercettazioni), se la legge ha la pretesa di essere pura e assoluta, ciò significa trascurare il fattore umano. Però è anche vero che una società che non persegue la giustizia è una società in cui non vorremmo vivere, perché i più forti prevarrebbero sui più deboli, mentre è proprio dai più deboli che provengono l’appello e le istanze per un mondo più giusto.

Dunque la trasformazione del diritto mette di fronte a una grande sfida gli avvocati, i docenti, i magistrati, gli studenti di giurisprudenza e naturalmente i legislatori. Anche la democrazia (e “Imparare la democrazia” è uno dei testi più noti di Zagrebelsky) non è immune da rischi perché pure la maggioranza può diventare tirannica e intollerabile. Non basta dire di avere la maggioranza per calpestare i diritti umani. Per quanto poi riguarda un tema di urgente attualità, il conflitto di legittimazione tra giustizia e politica, «ben venga questo conflitto, perché la vita sociale tutta stesa in linea retta senza contraddizioni non è una bella cosa. Pure questo è la democrazia l’unico regime politico che attribuisce dignità a ciascuno di noi. Dove non ci sono conflitti, i regimi sono autoritari o arcaici».

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