Viaggiare e farsi viaggiare, portare avanti come pellegrini la vita perché «la meta dei miei pellegrinaggi è sempre un altro pellegrino e il senso della vita è nel costante cambiamento, nel movimento» scrive nel romanzo “I vagabondi” (Bompiani, 2019) Olga Tokarczuk, scrittrice e poetessa polacca, premio Nobel per la letteratura 2018, presenza attesissima a Taormina al Taobuk 2021 dove ha ricevuto il Taobuk Award for literary Excellence. Si dice felice e onorata e sorpresa, lei viandante del mondo e della scrittura (per il prossimo anno è attesa la traduzione italiana del suo ponderoso romanzo “I libri di Jacob”) che «in un posto così lontano qualcuno mi conosca e abbia voluto conferirmi questo premio» perché «quando uno scrittore scrive, sprofonda dentro di sé e si dedica al suo viaggio narrativo, non ha idea di chi lo leggerà». E aver constatato, come lei negli ultimi due anni, che i suoi libri e soprattutto “I vagabondi”, «sono ovunque non solo letti ma pure capiti» è molto bello perché vuol dire che molti trovano sempre qualcosa di sé dentro le sue parole.
«Siamo quello che ci raccontiamo», così disse nel suo discorso per il Nobel, la Tokarczuk, e quando le si chiede quali sono le parole rimaste durante questa pandemia, ne elenca alcune terribili, come chiusura, prigione, pericolo, frontiere, e altre positive, come tranquillità, riflessione, essere con se stessi, considerare il mondo come un insieme, un’entità unica. Attenzione, però – avverte – all’eccesso di tranquillità e di fiducia, attenzione a sottomettersi al regime in nome della sicurezza durante il pericolo, al credere alle regole senza chiedersi troppo! Insieme all’esortazione a essere vigili come cittadini, perché tutto ciò è stato considerato come una sorta di sperimentazione, soprattutto da parte di alcuni politici, la Tokarczuk ha ricordato come nel suo Paese, infatti, le leggi straordinarie per la pandemia, con il divieto di manifestare, hanno permesso al governo di far passare una delle leggi più tremende al mondo, quella antiaborto.
Eppure in questo tempo che ha mostrato che alcune cose impossibili sono diventate possibili e viceversa, sia quelle sfavorevoli come quelle benefiche, ancora più importante è il ruolo della letteratura, «niente affatto morta, come dicono ogni dieci anni», perché «la letteratura è un prezioso contrappeso a certa informazione convinta di offrire un’oggettività che non esiste e un altrettanto prezioso contrappeso sia al discorso politico estremamente semplificatore sia al discorso religioso che nel mondo contemporaneo perde di autorevolezza. Mentre la letteratura si schiera dalla parte della metafora, della metamorfosi, del profondo, del nostro profondo».
E alla domanda su come sia cambiato il suo rapporto col tempo oggi, nella vita e nella scrittura, la Tokarczuk, i cui libri «accolgono il mondo come un pellegrino», accogliendo a loro volta il lettore, con «gli scostamenti e gli scarti della vita come viene», risponde dolcemente di non aver notato molte differenze perché occupata ad osservare con attenzione il processo del tempo che passa, il tempo che si riduce tra lei e la morte, la fragilità e l’imprevedibilità, con le quali lei stessa e la letteratura sempre si misurano. E se nel viaggio come nella scrittura si va oltre le frontiere, s’impara a essere ulisse/nessuno tra altri ulisse/nessuno, quando le viene domandato quale metamorfosi ha subito l’idea della frontiera, cosa ha portato nel suo mondo narrativo, la scrittrice risponde senza esitare che per lei «le frontiere sono la metafora della violenza e della sopraffazione».
Un tema da approfondire, soprattutto con la letteratura – dice – , perché «il mondo ha preso una direzione sbagliata, siamo circondati dalle frontiere, si sta costruendo una realtà di odio l’uno con l’altro».
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