Su Babelia, il bell’inserto culturale di El País, Manuel Vilas ha scritto che se «Cervantes ha fondato il romanzo moderno, Whitman ha fondato l’autobiografia contemporanea». E la lezione dell’autobiografia, quella fusione profonda della poesia e della vita, della verità e della menzogna in un solo respiro, Manuel Vilas, tra i più grandi poeti e narratori spagnoli della sua generazione, la restituisce in “Amor” (Guanda, 2021, testo originale a fronte, traduzione di Bruno Arpaia). Un viaggio d’amore, appunto, a squadernare il libro della sua vita, frammenti in prosa che funzionano in una struttura metapoetica eppure fortemente lirica con apparenti divagazioni, postille e coppie di opposizioni: vita e morte, carne e anima, sogno e veglia, tempesta e speranza, naufragio e salvezza. Funambolo della parola, Vilas, ed è la parola “amore” la gran palabra, la grande parola che dà salvezza, come ha detto nell’incontro intitolato “Il divenire che siamo noi. Amor, ovvero dell’eterno mutare” in cui ha conversato con il giornalista Mario Di Caro. La parola che salva dal fallimento, dal capitalismo, dalla confusione, dalla paura, dal coronavirus. Il sentimento che dà il sentido, il gusto della vita. E cita Battiato, Vilas, con la sua struggente “Stagione dell’amore” «che viene e va e i desideri non invecchiano mai con l’età…». Ma c’è un’altra parola dalla grande bellezza, insieme all’amore, la libertà. «Nella lirica Oración io desidero dire ai miei lettori di cercare il luogo della libertà, come si cerca l’amore, ed è proprio la poesia a rivendicare questi sentimenti. Amore e libertà dalla burocrazia, dall’alienazione, dallo spreco quotidiano con cui ci facciamo rubare la vita». La poesia, infatti, lotta contro tutto questo, vuole dare bellezza all’umanità. Poesia realistica la definisce lo scrittore, che mescola la gioia col dolore, la melanconia con l’ebbrezza, pure del bere, la nostalgia e la memoria, i rimorsi con i rimpianti, il fallimento con l’esaltazione, McDonald con García Lorca (il poeta in assoluto più popolare della Spagna – dice – e il cui fantasma, assieme a quello della guerra civile, sorvola con la sua morte violenta pure la politica attuale). E anche di fantasmi, parla “Amor”, dei genitori morti di Vilas, dei genitori morti di tutti noi, dell’amore provato per loro, del fatto che quell’amore non se ne va, anche quando scompaiono, perché i legami con chi ci ha amato continuano a sostenerci e proprio quei legami ci permettono di vedere, a distanza di tempo, che in tutto c’è stata bellezza (e “In tutto c'è stata bellezza” è il suo bel romanzo pubblicato in Italia da Guanda). Ecco, il poeta, «se per definire il dolore, la tristezza, usa le parole esatte, allora può dare sollievo, perché se il lettore si sente rappresentato nel suo dolore, allora viene consolato dalla parola di chi scrive ». E non poteva mancare il tema del viaggio nella conversazione di Vilas (e con un viaggio dell’io narrante sul ferry che va a La Gomera da Santa Cruz di Tenerife inizia “Amor”), perché per Vilas, che avrebbe desiderato esser nato in tutte le città del mondo, «el viaje non è nazionalista, il viaggio è fratellanza, è tolleranza, è democrazia».