Sul finire degli anni Settanta del secolo scorso un giovane magistrato, Andrea, assume l’incarico di giudice istruttore in un tribunale del sud. Sullo sfondo della realtà di una mafia in fase di cambiamento, la vicenda umana del magistrato si intreccia con due gravi delitti, che lo porteranno a indagare in un ambiente complicato. Dalle indagini emergono figure nobili, di inquirenti e di giovani uomini politici che credono nella loro azione per un futuro migliore, e personaggi criminali, che perseguono i loro fini di arricchimento illecito e di potere con il più cinico disprezzo per la vita e la salute degli altri. Dai fascicoli di cui il magistrato si occupa escono tanti fili, aggrovigliati come in una matassa, che però lentamente si svolgono e sembrano condurre tutti a un unico burattinaio, il più scaltro e pericoloso degli insospettabili. Rievocando alla fine della sua carriera questa giovanile stagione, Andrea non può che rivedere con nostalgia, ma anche con maggiore consapevolezza, gli accadimenti di un tempo che è passato, o che sembra passato. La realtà spinge al pessimismo, ma forse si può ancora sperare, stando davanti a quello spazio di libertà interiore che per lui è il mare, che tutto trascina e trasfigura. È questo il bel canovaccio letterario del giallo giudiziario “Il giudice e il professore”, di Mohicani Edizioni, opera prima del magistrato Antonino “Nuccio” Totaro, avido lettore da sempre, il quale smessi i panni togati da qualche anno s’è potuto dedicare a ricatturare nella mente i ricordi della sua carriera per fissarli nella scrittura, a rimestare nel passato di una vita trascorsa a scrivere raffinate sentenze di vita. Totaro, che è stato tra l’altro presidente del tribunali di Mistretta e Messina, con questa sorprendente opera prima per stile e narrazione irrompe nella scena letteraria degli autori messinesi con grande stile, che poi è quello che ha sempre contraddistinto la sua carriera da magistrato. Gli ingredienti di parole ci sono tutti: l’ambientazione in un tribunale di una città meridionale, volutamente non precisata, ma è facile riconoscere nel libro gli uomini e le bellezze, ma anche le crudezze, della Calabria, l’intreccio narrativo di fantasia certo, ma che qui e là sembra autobiografico, con il riferimento ai primi anni di esperienza di un giovane magistrato alle prese con una realtà giudiziaria di grande complessità, nonché ai mutamenti che in quegli anni segnano l’evoluzione della mafia-’ndrangheta, che passa dalla tremenda realtà dei sequestri di persona, crudamente descritti da chi li ha conosciuti da vicino, occupandosene personalmente, ai settori emergenti degli affari e del traffico degli stupefacenti. Ecco un passaggio del libro, ben descrittivo della gente calabrese, che l’autore ha conosciuto in dodici anni di servizio passati in Calabria: “Che terra quella in cui quel giudice deve lavorare! Abitata da gente che non conosce le mezze misure; che, come don Mimì, dà tutta se stessa all’amico, ma che, come i sequestratori o i mafiosi, può essere disumana al di là di ogni immaginazione”. Nel libro c’è poi la rievocazione nostalgica di stagioni passate e l’amore viscerale dell’autore per il mare, per quello “scill’e cariddi”, richiamato dalla bella foto in copertina dell’avvocato Daniele Passaro e mirabilmente descritto da Stefano D’Arrigo in “Horcynus Orca”. Non mancano i flash delle sue passioni, che con tono lieve descrivono scorci della vita sentimentale e familiare del protagonista-autore: dalla pesca notturna sotto un cielo di stelle alla gita a Roma con la giovane moglie, dalla figlia che bussa in lacrime alla porta dello studio alle immagini giovanili che ritornano nel sonno del giudice ferito. Un esperto del mondo editoriale, dopo averlo letto, ha detto che «... il romanzo… ben scritto… è costellato di scene buone, avvincenti e crude, e i personaggi ancillari, tra gli altri, di don Mimì e dell’avvocato Caserta, sono convincenti figure silonesche o brancatesche».