“Duecento giorni di tempesta” non è solo il titolo ma anche il tempo vissuto dalla protagonista e io narrante, del terzo romanzo di Simona Moraci, nelle librerie e on line da ieri e pubblicato dalla casa editrice “Marlin” che Tommaso e Sante Avagliano hanno fondato, ispirandosi, al marlin de “Il vecchio e il mare” di Hemingway. Anche la tempesta, cui allude il titolo del libro, si scatena, tra due città di mare, siciliane, sulle barricate di una scuola di periferia e dentro le rotte sentimentali di una giovane insegnante. “Il primo giorno di scuola” con cui si apre la storia, per Sonia segna il confine tra vecchia e nuova vita, che oltrepassa con i lividi del divorzio, di un figlio morto prematuro, “nasceva già condannato ad andarsene” e le “incertezze nuove”, l’orizzonte abitato da nuovi colleghi, nuovi alunni, nuova città, nuovo mare. Una vita da cominciare in un clima ostile, violento, acido, rabbioso, come descritto nella quarta di copertina da Vladimiro Bottone: “Un Sud scontroso e una scuola a rischio: due frontiere, due sfide, un corpo a corpo fra studenti difficili e un’insegnante al vertice di un triangolo amoroso carico di passioni e chiaroscuri come la scrittura dell’autrice. Le aule “dove le sbarre alle finestre erano la prassi” e dove la professoressa subisce subito una“ lapidazione a base di plastica”, sono microcosmi e riproduzioni dell’ambiente circostante, regolato solo da leggi criminali che diventano mentalità diffusa. In quelle scuole a rischio troverà studenti ingestibili che si portano il quartiere addosso, con il suo carico di sopraffazioni e prepotenze; la giungla urbana che plasma le classi come un ring, in cui volano banchi, sedie, bottiglie, così come fuori proiettili e coltelli. Il rapporto fra studenti qui è scandito da sfide, bracci di ferro, insulti, risse di cui l’insegnante è arbitro impotente. La scuola si interroga sul modo con cui arginare quella china che sembra inevitabile con professori rassegnati e frustrati di fronte a comportamenti “disfunzionali”, estremi, fuori dagli schemi degli alunni.
Ma Sonia vuole salvarli quei ragazzi, non vuole arrendersi; la “frontiera” va varcata e il malessere affrontato con l’accoglienza, l’amore che muta la metodologia di insegnamento, che trova nuove e fantasiose strade per arrivare al cuore degli studenti, stimolando curiosità e coinvolgimento, attraverso fiabe, miti, mandala, laboratori teatrali. “L’amore è l’unica via per uscire dal buio” si ripete Sonia in quella scuola che fa da quadro al romanzo, da architettura che scandisce il ritmo temporale e spaziale che l’autrice, quale insegnante, conosce e ama. Un perimetro che diviene letterario, perché abitato da sentimenti, storie, nomi. La galassia -scuola qui viene raccontata con il punto di vista rovesciato, quello dei professori che corrono in mezzo a consigli di classe che sembrano battaglie navali tra diffidenze, gelosie o impreviste cordate di colleghi, e lezioni con alunni distratti, indifferenti ai contenuti didattici, intenti solo a sopravvivere. In questa geografia sommersa, Sonia si muove e punta ogni mattino al cambiamento, che, alla fine, arriverà. E quei banchi diventeranno lo spazio di una famiglia, la forma di una casa per i tanti Triscia, Geremi, Gionni, Kevin, Clark, Mia, Rosario, Giuseppina, grazie a quella tenace insegnante. E pensando agli inferni sulla terra, viene in mente Calvino nella chiusura delle “Città invisibili”: “Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più.
Il secondo è cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.” In questo contesto spietato, la protagonista incontra due colleghi, che diventano per lei puntelli luminosi, aiutandola a capire il linguaggio e i riti di quel mondo parallelo, di cui anche loro due da giovani erano parte, crescendo in un quartiere di malacarne, dove scorrevano “sangue e sapone, giù per il canale di scolo”. Andrea e Stefano, amici -nemici: il primo docente d’Arte, intrigante, indolente, schietto, rude, parla in dialetto, “dai modi pittoreschi” , impavido, positivo, seppure segnato da ferite di un passato di violenze ,“scirocco dentro di me, un uomo che leniva la mia anima”; il secondo “sembrava avere l’Oriente nel sangue”, misterioso, criptico, magnetico contradditorio, con “le sue altalene emotive”, timoroso di svelare troppo i propri sentimenti, “Stefano sempre in biciletta, sempre inafferrabile”. Affascinata da entrambi, la donna sarà al centro di un pin pong serrato, di fughe e ritorni, incontri e scontri, equilibri e squilibri, incandescenze e abbandoni. L’amica Altea sarà l’unico punto affettivo stabile, grazie a lei sarà aiutata a difendersi dagli eventi -fendenti di cui è in balia per arsura d’amore, che la destabilizzeranno continuamente, rendendola vulnerabile e insicura. Dei due uomini sentiva tutto il dolore del loro passato, che occuperà sempre più il suo corpo e i suoi pensieri. Pagina dopo pagina l’attrazione alternata verso l’uno o l’altro, genererà confusione ingestibile, rimorsi, affanno, vertigine. Lei sarà tirata da una parte e dall’atra, per amore ed eccesso d’amore, subirà botte, possesso, ma anche raffiche di attenzioni, premure, sentimenti nuovi che la invaderanno totalmente, una “beatitudine sconosciuta”, rodendo spazio alla prima vita e al vuoto sentimentale. Il dubbio sui suoi sentimenti sarà rovello crescente :“Andrea che mi era entrato nel sangue più tenace di una maledizione…Stefano portava con sé la capacità di riaprire le mie ferite e farle sanguinare”. Rapporti che le danno passione, ma non una fisionomia, che troverà solo alla fine del romanzo, nel senso di maternità, grazie al bambino in arrivo e a Gabriele, il figlio acquisito. Questa forza di un amore che sovrasta gli altri, sarà la leva per trovare un’autosufficienza sentimentale ed esistenziale, un nuovo equilibrio che renda naturale la scelta fra i due compagni che l’autrice sapientemente non rivela e affida alla sorte.
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