Noi non possiamo andare a teatro? Allora sarà il teatro a venire da noi. Ma non per via telematica, come è stato, in alcuni casi, finora. Il teatro con la faccia, il corpo, la voce degli attori. Il teatro “in presenza” (come se potesse essercene un altro), ma in sicurezza. È l’idea di resistenza di un attore e regista pugliese, Ippolito Chiarello, diventata un progetto ampio e diffuso (le Usca, ovvero, sulla falsariga delle Unità Speciali di Continuità Assistenziale che abbiamo imparato a conoscere, tristemente, in questi mesi, le Unità Speciali di Continuità Artistica), ed è approdato anche a Messina, dove ha incrociato il percorso di un noto duo di autori-attori che realizzano da anni l’Area (Artistica) Integrata dello Stretto: il reggino Giuseppe Carullo e la messinese Cristiana Minasi. Il loro teatro del limite e della resistenza, del margine che si fa piattaforma e centro, la loro ricerca di un’azione scenica che sia sempre nutrimento e scambio, consapevolezza dell’abisso e capacità di affacciarvisi e gettarci dentro fragole e farci rimbalzare l’eco della parola, della voce si sono esaltati, in qualche modo, in questa formula d’emergenza creativa. Così domani comincerà il loro “Delivery Theatre”: servizio a domicilio di bellezza à la carte. Basta chiamare, ordinare (sul sito www.carullominasi.wordpress.com/delivery-theatre-carullominasi/ o sulla pagina Fb) dal menù (estratti dai loro spettacoli di successo, da “Due passi sono” a “Leopardi Operetterevival”, o anche un menù per bambini, di letture animate) concordando il luogo (un cortile, una scala, un marciapiedi) e gli spettatori (a finestra, a nucleo familiare, a spalti improvvisati). Al loro menù si può unire quello del “Musicista itinerante” (la violoncellista Laura Benvenga). E poi, affacciarsi e godersi lo spettacolo, da soli, con la famiglia o con l’intero condominio (ma si può anche regalarlo a qualcuno). Al progetto partecipano anche Cinzia Muscolino, grafica; Cristina Ipsaro Passione e Pierino Botto, scenografia, Marta Cutugno, Gianmarco Vetrano per il video. «Quest'idea – spiega Cristiana Minasi – , che poi è praticamente il teatro d'un tempo, nasce col proposito di Ippolito Chiarello. Lui porta avanti da 11 anni il suo “barbonaggio teatrale”. E in quest’occasione ha deciso di mettere a disposizione di tutti gli artisti il suo format. Le risposte sono state tantissime: ha attivato queste Usca. È chiaramente voluto il riferimento all’attuale concetto di ristoro, che non è solo il ristoro della salute materiale dei corpi, ma della salute mentale. Si stanno vedendo i grandi disagi, la solitudine che investe le persone di tutte le età e diventa una sofferenza che si svilupperà e non sappiamo ancora come. Non c'è niente di più bello che avere a che fare con la fragilità del tempo odierno, coi lati oscuri dell'esistenza: diventa una forma di condivisione collettiva, pubblica, un momento di riferimento e di analisi, di consapevolezza condivisa. Gli artisti non sono quelli “che fanno tanto divertire”: gli artisti devono porre domande, quesiti, rendere collettivo il quesito comune: che ci facciamo qui?». L’artista portatore della fragilità e assieme cura di quella fragilità con la condivisione. Questo va nella direzione del vostro lavoro di sempre... «Questo si allinea pienamente e fortissimamente con la linea politico-poetica del progetto Carullo-Minasi. Noi da sempre abbiamo vissuto l'idea che dal limite viene fuori l'opera, l'atto d'arte. Io ho sempre lavorato sull'idea di un teatro partecipato, un teatro diffuso, attraverso cui si ravvisi anche una dimensione mosaicale della partecipazione attiva. C'è un investimento degli artisti protagonisti ma anche degli spettatori, che diventano essi stessi protagonisti attivi di un processo condiviso. Noi da tempo ci trovavamo “mangiati” dalle tournée, dall'iperproduzione, e questo momento, questo “annus horribilis” ci ha messi dinnanzi a un tempo straordinariamente sospeso. Ci ha messo davanti alla possibilità dello studio, di quello che avremmo davvero voluto restituire al nostro pubblico: non tanto qualcosa che noi diamo, ma l'ascolto che vogliamo mettere in atto. Più che dare vogliamo ricevere. Lo spettatore diventa autore primo delle istanze che intende innescare. Il nostro obiettivo è creare un teatro diffuso, delocalizzato, un teatro inclusivo, una mappatura psico-geografica di una dimensione molto allargata. Siamo noi che riceviamo nutrimento dalle richieste dei nostri spettatori, che nelle circostanze “normali” ricevono passivamente un menù che viene loro proposto. Qui sono loro a decidere cosa vogliono, come, perché, dove. Diventano anche promotori dello spazio, della sistemazione, dell'organizzazione. Una cosa affascinantissima. Il nostro motto è uscire fuori dal teatro per ritornare al teatro molto più numerosi. Raggiungere un nuovo pubblico, riconquistato». Una sperimentazione assoluta... «Questa condizione di sperimentazione, ignoto, incerto è tipica dell'arte dell'attore, che si mette in una situazione di improvvisazione e rischio: la migliore forma di esercizio che può essere restituita ad un artista, che non deve mai stare comodo. Una sperimentazione che poi ritorna all'originaria potenza di un teatro reso in ogni luogo, in ogni dove. La nostra politica poetica è sempre stata centrata sul fatto che l'artista non è un eroe o un conquistatore, è un uomo povero che ha scelto il suo posto faccia a faccia con la paura. Ed è in questa consapevolezza che dobbiamo stare». Arrivederci dalle finestre.