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Gigi Proietti, quella volta a Taormina dopo la stroncatura

Taormina, sera di Ferragosto del 1988. Mi viene incontro Ninni Panzera, segretario generale di Taormina Arte, con sguardo corruscato e voce grave: «Proietti ti vuole conoscere», mi dice, pronto ad accompagnarmi a un incontro che si preannunciava poco piacevole. L'attore romano era protagonista al Teatro Antico di un applauditissimo “Liolà”, uno spettacolo da tutto esaurito e con lunghe ovazioni finali, di cui era interprete e regista. Io ho sempre scritto con franchezza e sicuramente la recensione a quel Pirandello per me tradito rimane una delle più “cattive” della mia carriera giornalistica. Rileggendola adesso, devo dire che era ampiamente motivata, come sarebbe doveroso sempre e come lo era maggiormente davanti a un evidente grande successo e a un attore di cui io stesso ero e sono un profondo estimatore. Tra l'altro avevo scritto (e, dato che ricordo bene quello spettacolo, mi do ragione): «Una messinscena che, facendosi contaminare dai moduli della commedia musicale e da quelli del varietà televisivo, ha allargato la piattaforma di gradimento al massimo possibile ma ha finito col perdere di vista l'autentica vena del testo, giocato sempre sul doppio binario della commedia e del dramma». E ancora, sulla sua prova di attore: «Bravo, bravissimo, anche troppo si potrebbe dire. Cede alla tentazione di legare in prima persona col pubblico, di comportarsi come se fosse protagonista di un recital, uno di quelli in cui è maestro, anziché essere alle prese con un personaggio autentico che ha bisogno di essere recitato e assecondato». E molto altro.

Quando raggiungiamo Proietti (eravamo a un piccolo ricevimento finale dopo l'ultima replica), mi trovo davanti un altro sguardo corruscato (saranno i riflessi del sole di Ferragosto, avrò pensato), ma anche un sguardo aperto e sincero. Mi dice poche parole: «Sì, ho chiesto di conoscerla dopo aver letto la sua recensione». Sono pronto alla battaglia. Mi guarda con gli occhi brillanti, reggo lo sguardo e mi sento sul palcoscenico di “A me gli occhi, please!”, il recital che aveva proposto per la prima volta nel 1976. Lui è serio e financo molto compito, quasi la versione elegante di Mandrake: «Ci tenevo a ringraziarla - mi fa - perché mi ha dato molti motivi per ripensare il mio spettacolo» e (finalmente!) si scioglie nel suo caratteristico sorriso.

Questo era Proietti: un grande assoluto, cui il successo non aveva fatto smarrire l'intelligenza dell'autocritica e la capacità di nuove invenzioni e quindi di prove diverse dal solito. Non credo che sia solo un caso che l'anno dopo si sia riproposto a Taormina con il monologo “Kean”, dedicato al grande attore del primo Ottocento inglese, tutto genio e sregolatezza secondo i canoni classici del Romanticismo. Alle prese con un personaggio complesso e decisamente drammatico, lontano dal suo abituale registro comico, Proietti seppe toccare altre corde recitative rispetto alle sue più conosciute e fu protagonista di una prova di altissimo livello, comprensiva anche di un enorme sforzo fisico e senza dimenticare il personaggio che interpretava.

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