Forse più della realtà stessa sono interessanti le storie che della realtà si raccontano. Perciò è bello esplorare nel luogo più libero che esista, i libri, dove la mescolanza tra finzione e realtà è una condizione essenziale. Come nella vita stessa. È questo che ci insegnano Omero, Shakespeare, Cervantes.
Shakespeare, appunto, sulla cui “questione” la docente e scrittrice siracusana Elvira Siringo ha scritto un romanzo fresco di stampa, “L’ultima erede di Shakespeare” (Piemme). Una trama complessa che spazia tra generi, epoche e personaggi, partendo da Messina, nel 1580, con Michelagnolo Florio, figlio del medico ebreo Giovanni, e di donna Memma Crollalancia, e seguendo le sue peregrinazioni per l’Italia, la Francia e infine l’Inghilterra dove il cugino più celebre, John Florio, lo presenta alla corte della regina Elisabetta I. E poi, nel nostro tempo, con Elisabetta Villa, insegnante che a Messina vive una defilata vita di provincia ma viene trascinata in una incredibile serie di avventure, tra Europa e America, avendo al suo fianco niente meno che il più famoso degli 007 cinematografici.
I fili del romanzo s’intrecciano tra giallo storico e spy story, tra magia ed esoterismo, tra Giordano Bruno e Iohn Dee, tra gli intrighi della Londra aristocratica e stracciona del XVI-XVII secolo e odierne, tecnologiche spie cinesi: un’operazione colta e “sovversiva” quella della Siringo, che per iniziativa della libreria Bonanzinga presenterà il libro in prima nazionale a Messina domani alle 18 nel Salone delle Bandiere del Comune. Ma se Shakespeare è diventato un mitologema, cui afferiscono le varianti che il “mito” stesso assume, chi era il vero Bardo?
Un incredibile viaggio nella storia e nelle storie. Come è nata l’idea di questo romanzo?
«Fino a una decina di anni fa sapevo poco di Shakespeare, solo ciò che avevo appreso a scuola, poi lessi “Il Manoscritto di Shakespeare”, romanzo del professore Domenico Seminerio. E da allora iniziò un percorso di ricerca. Insegno storia e filosofia da oltre trent’anni e mi piace alimentare anche nei miei studenti la consapevolezza di quanto queste discipline siano vive e aderenti ai nostri giorni. Le emozioni e i sentimenti non cambiano; le vicende di ieri diventano lente d’osservazione dell’oggi e specchio del domani. Perciò mi attirava l’idea di riuscire ad incastrare una doppia narrazione che avesse un forte filo conduttore».
Dunque, un romanzo “storico” e d’invenzione?
«La definizione stessa di romanzo storico si coniuga con l’invenzione. Senza fantasia non sarebbe romanzo ma senza radici concrete non sarebbe storico. Credo che dietro ogni finzione letteraria ci sia un tema che può essere narrato in mille modi diversi. In questo caso la questione shakespeariana, dunque occorreva definirla nel suo preciso contesto storico e proprio il desiderio di approfondire, piuttosto che darmi certezze, ha moltiplicato i miei dubbi. Ho scoperto ciò che forse non tutti sanno, che tutto quel che riguarda Shakespeare si è perduto alla sua morte ed è stato ricostruito solo dopo il 18° secolo: la casa, il paese, le locande, i teatri, perfino le opere, sono tutte finzioni! Fedeli all’immagine che si è deciso di imporre al mondo, costituiscono il modello verosimile di un drammaturgo tanto geniale quanto invisibile. Dunque coniugano già l’elemento storico all’invenzione».
Come si è svolto il lavoro di ricerca?
«Mi sono documentata metodicamente, il periodo della Golden Age lo conoscevo già abbastanza bene, ma sui personaggi minori avevo molto da imparare. Poi ho rispolverato il mio inglese rileggendo le opere di Shakespeare in modo critico e mi sono accorta che spesso le traduzioni sono molto libere e non sempre aderenti. Una parte notevole del mio approfondimento è stata dedicata alla raccolta del Sonetti pubblicata da un anonimo curatore nel 1609, a insaputa dello stesso Shakespeare, il quale vide l’opera in stampa e ne fu sorpreso (così scrive Auden), però non chiese spiegazioni all’editore, ma da Londra ritornò dalla famiglia a Stratford, il paese di provenienza da cui mancava da tempo. Lo studio sui sonetti mi ha condotto ad elaborare l’ipotesi che la raccolta possa essere stata costruita come una grandiosa corona di sonetti. In altri termini, una misteriosa persona avrebbe raccolto 154 dei suoi sonetti e li avrebbe ordinati in modo da poterne estrarre 14 e da ciascuno di essi estrarre un singolo verso. I 14 versi risultanti avrebbero formato un nuovo sonetto (una tecnica abbastanza diffusa all’epoca, per dimostrare il proprio virtuosismo poetico)».
Ai Sonetti, appunto, e alla chiave per decodificare il 155° sonetto lei ha dedicato “Il codice Shakespeare”. Forse, come recita il sonetto, bisogna «lasciare la Verità nascosta sotto la Bellezza».
«Bisognava capire quali fossero i versi dei sonetti da estrarre fra 154, numero inusuale, ma divisibile in 11 x 14. La mia attenzione è stata attirata dalla enigmatica dedica posta in frontespizio ai Sonetti, sulla quale ci si interroga da oltre 400 anni. Mi sono soffermata sulla struttura formale della dedica che si presenta su dodici righe più una coppia finale di iniziali secondo lo schema del sonetto classico elisabettiano. Ogni rigo mi fornisce una coppia di numeri (un numero di parole e un numero di punti). Se ingabbio i 154 sonetti in una tabella di 11 x 14 righe posso estrarre da ogni riga il sonetto che corrisponde al numero dei punti ottenendone 14. Da ciascuno estraggo poi il verso che corrisponde al numero di parole ottenendo 14 versi che, letti nell’ordine, formano un sonetto preciso, sensato e di contenuto abbastanza intrigante. Questa scoperta ha dato una svolta importante alla mia storia!».
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