Come sembra lontano quel 1994, ultimo dei sette anni della direzione artistica di Gabriele Lavia alla sezione teatro di Taormina Arte! Tante, troppe cose sono cambiate da allora: nel teatro italiano in generale e a Taormina in particolare, e non sempre in meglio, anzi. E allora i due spettacoli di domani e domenica (“Medea”, interpretato da Federica Di Martino – moglie del regista – e Simone Toni, e “Il sogno di un uomo ridicolo” da Dostoevskij, con in scena lo stesso Lavia, produzione della Fondazione Taormina Arte Sicilia) diventano un modo-simbolo per riavviare la storia di quel luogo magico che è il Teatro Antico. Tanto più che la prima presenza dell’attore-regista di origini siciliane sul palcoscenico che guarda alla baia di Naxos risale al fatidico 1984, con un “Amleto” (interpretato anche da Rossella Falk, Umberto Orsini e Monica Guerritore) da sold-out, cioè l’anno famoso della presenza, commovente e commossa, di Eduardo De Filippo che su quel palco pronunciò il suo testamento artistico, aggiungendo: «Questo teatro deve diventare il trono dell’arte».
«Una serata indimenticabile – ricorda Lavia – e non solo per il discorso di Eduardo. C’erano attori, per esempio Tognazzi e Gassman, che cominciavano a essere alle prese con la depressione, una patologia che tanto ha colpito il mondo del teatro. De Filippo aveva capito dove si stava andando. Allora pensavamo che tutto era già rovinato e invece non avevamo visto ancora nulla. Il mostro burocrazia stava inghiottendo tutto. Sono arrivati i manager, dove ci sono loro regna l’incompetenza perché credono di sapere tutto. Il teatrante che dirige un teatro, invece, sa di non sapere, perché la stoffa teatrale è inafferrabile».
Quindi, questo ritorno a Taormina, 24 anni dopo l’ultima stagione, serve anche a ricordare come e perché si può organizzare e fare teatro?
«Sì, è vero. Forse Ninni Panzera (segretario generale di Taormina Arte, nda) quando me ne ha parlato lo scorso inverno pensava anche a questo aspetto. In quei sette anni la città era diventata un unico palcoscenico, non solo il teatro antico, ma anche la villa comunale, il palazzo dei congressi, le strade principali con clown e giocolieri, dedicati ai più piccoli. E pure tanti incontri e gli aperitivi con gli autori: ricordo, per esempio, Josè Saramago che parlava alla gente sorseggiando un prosecco. Era la dimostrazione che Taormina era ed è un luogo teatrale pronto per l’uso nella sua globalità, e questo deve tornare a essere».
Tanti grandi nomi (da Valeria Moriconi a Gianrico Tedeschi, da Paola Borboni a Glauco Mauri, da Mariangela Melato a Mariano Rigillo, Flavio Bucci e tanti altri), molti ospiti stranieri grazie al Premio Europa (Brook, Grotowski, Vassiliev, Nekrosius eccetera), molta sperimentazione (De Berardinis, Perlini, Savary, Barberio Corsetti…), nel 1994 la chicca di aver fatto debuttare, contro il parere di molti, gli allora sconosciuti messinesi Scimone e Sframeli con “Nunzio”: non mancava nulla. Ora non sembra più possibile: è una questione di soldi?
«Non è mai questione solo di soldi ma di volontà politica, ne sono convinto. Oggi i tempi sono maturi per cambiare d nuovo, parlo dell’umanità e quindi del teatro. La piccola tragedia che abbiamo vissuto ci ha confermato che il mondo non ha più tanto tempo per migliorare, non nascondiamoci più. “La vita umana è come un’ombra” dice Euripide. E Lear: “Non pretendiamo di essere eterni, quindi ognuno deve lasciare un segno”. Ecco, il teatro serve anche a questo, guai a non capirlo!».
Comunque i tempi sono diversi, nel modo di vivere e di pensare.
«Sì, certo, possiamo dire che il telefonino ha peggiorato molto la gente. E cosa risolviamo, dando sempre la colpa agli altri? Il destino siamo noi, ma sembra che non siamo più capaci di cogliere le nostre ragioni profonde, eppure la spinta al divertimento fa parte delle nostre passioni ideali. Ricordo sempre una sarta che mi ascoltava dietro le quinte quando recitavo “Don Carlos”; una sera, commossa, mi disse: “Quante belle parole!”. In fondo il teatro è questo: belle parole. Riempire il concetto di bellezza è il grande problema registico di sempre. Noi veniamo invece dal periodo della semiotica, del significato e del significante, della grande confusione filosofica. Qualcuno ne parlava con competenza, molti altri con confusione che è diventata anche sciocchezza, talvolta avallata anche dai critici. La verità è una sola: se lo spettacolo è riuscito, se gli attori sono bravi, il pubblico viene ancora oggi, ma se continuiamo a deluderlo…».
Bene, allora parliamo dei due nuovi spettacoli in scena a Taormina.
«Medea è lo spettacolo più importante della mia vita, sembra che non ci sia neppure il regista. Col mio adattamento ho portato la tragedia di Euripide in una stanza, dove si scontrano marito e moglie, Giasone e Medea. Tutti i personaggi e il coro rientrano in loro. È un Euripide da camera, la sua drammaturgia (che rimane tutta) è riportata in uno stile che potremmo definire da Strindberg-Pinter. Poi “Il sogno di un uomo ridicolo” ci regala l’ipotesi d’un mondo puro e meraviglioso che non regge all’impatto col protagonista, che ormai viveva la sua vita al chiuso, ignaro delle possibilità dell’uomo. Noi non usciamo dal sottosuolo per mancanza d’amore per gli altri».
C’è qualcosa che ricorda la cronaca dei nostri tempi…
«Sì, da un certo punto di vista c’è assonanza e risonanza con l’oggi. Il protagonista corrompe tutto e tutti. Dostoevskij scrive che lo fa come un virus, un atomo di peste».
Visto che ormai sappiamo che gli attori vivono fino a 100 anni, lei che ne ha 77 è giovane. Prossima tappa?
«Un film, tratto da “L’uomo dal fiore in bocca” di Pirandello. Nasce da uno spettacolo teatrale in cui ho interpolato altre novelle e ho dato maggiore spazio al personaggio dell’avventore (nel film Michele De Mario). Cominceremo a girare il 24 agosto a Bari, in una sorta di stazione dell’anima».
Per uscire nelle sale?
«Si vorrebbe, ma anch’io sono perplesso. La prevengo: so che è una follia. La produttrice Manuela Cacciamani e Rai Cinema sono lanciati in questa matteria o mattitudine, che mi sembra omologabile a Pirandello».
E a teatro?
«Finito il mio impegno con La Pergola di Firenze, ho messo su una mia compagnia per allestire “Les lois de la gravité” (Le leggi della gravità), un adattamento da un romanzo francese che, in tempi di distanziamento, mi consente di lavorare con tre soli personaggi».
Chiudiamo con un pensiero ai giovani, teatranti e spettatori.
«Occorre sempre la passione autentica di chi recita, il pubblico la riconosce e si può identificare. Per questo ai miei tempi di Taormina il Teatro Antico si riempiva completamente. Il pubblico, i giovani per primi, si immedesimavano nella mia passione. Era il mio periodo fortunato: avevo sufficiente esperienza per far bene e non ero ancora un anziano, magari legato al già visto. La passione è fondamentale e questo vale per tutti, oggi come ieri. Teniamola in primo piano».
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