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Quando sulla scena l'essenza è l'armonia, il libro della messinese Di Vita su Carmelo Bene

«Avrete molte volte letto sui manifesti teatrali specialmente di caffè-concerto, la parola “creatore” o “creatrice” […]. Creare è un’altra cosa: è mettere al mondo ciò che non esisteva prima. Il resto più che creare si chiama imitare […]. L’arte sta nel deformare».

Questa frase di Ettore Petrolini, scritta presumibilmente negli anni Venti dello scorso secolo, è stata citata dalla studiosa Donatella Orecchia per introdurre un suo studio su Carmelo Bene e mi è tornata in mente davanti all’interessante e meditato libro di Vincenza Di VitaUn femminile per Bene. Carmelo Bene e le ma-donne a cui è apparso” (Mimesis, pagine 122, euro 12, copertina di Cinzia Muscolino).

Non solo perché la destruzione di cui ci racconta la ricercatrice messinese (attualmente all’Università di Torino) è certamente creazione, una ricerca dell’essenza che va oltre la sostanza, ma anche perché a questo antecedente Di Vita aggiunge, oltre a Mejerchol'd e la sua biomeccanica dell’attore, vari conseguenti, tra cui molto mi colpisce la citazione, efficacemente motivata, di Lady Gaga con i suoi video “Judas” e “Born this way”, ricchi di deformazioni dei racconti cattolici.

Tanto più, aggiungo io, se si pensa anche alla collaborazione della star originaria di Naso con Robert Wilson per una serie di videoarte: tra i “Portraits” e i “Tales” del grande regista americano, la cantante si trasforma, tra l’altro, nella testa decollata di Giovanni Battista, un tema legato alle esperienze beniane.

Ma il nucleo del libro è lui, Carmelo Bene, così chiaro e così sfuggente, così emblematico e così unico, così attore e così persona, così se stesso e così altro da sé, così tutto e così singolare. Non sono contraddizioni, sia chiaro, perché l’artista pugliese semplicemente sfuggiva a ogni regola, si poneva come summa definitiva (costruita e destruita all’infinito) di tutto ciò che è arte scenica.

«Il teatro di Carmelo Bene – scrive Di Vita – è attraversato dalle dimensioni del corpo e della voce che si dà e si toglie alla scena mediante un ciclico perpetuarsi. Questo processo infinito e infernale è affidato a dinamiche care al sacro rituale. Così come accade – per colui che creda – che vino e pane mutino in sangue e corpo di Cristo; allo stesso modo la transustanziazione di un rito, celebrato da una figura, tramuta in corpo il personaggio e interprete; l’attore rinnova la voce così che divenga pura phoné, priva di significato: nell’eternità di una messa glorificata sulla scena-altare». Ponendo in evidenza la riflessione sul sacro, è la donna che è anche Madonna e viceversa a fare da filo rosso a questa ricerca, il cui titolo echeggia il celebre libro autobiografico di Bene “Sono apparso alla Madonna”.

Una serie di apparizioni e sparizioni si dipanano attraverso vari personaggi, anche se rimangono centrali i percorsi di Bene su Amleto (e sulla sua parte femminile) e Pinocchio (con l’obiettivo sulla Fata Turchina, una e trina). È il disfacimento di sé stesso e del teatro, senza rinunciare alla “rappresentazione”.

«Il femminile in Bene – spiega Di Vita – è un elemento che costituisce la sua ambiguità di attore e uomo, di saltimbanco con l’ansiogena urgenza di dimostrare la sua ostinazione per l’eroismo e l’erotismo, insomma per l’eroica spinta all’Eros».

Il libro cerca di dipanare una materia complessa e punta, come Bene nel suo teatro, all’essenza, traguardo impalpabile e necessario, riuscendo a dare – con convincenti spiegazioni e argomentazioni – un ritratto significativo di Bene-Eroe-Madonna. Un libro da leggere e non da raccontare. Che arriva a significative conclusioni come, per esempio, «Carmelo Bene non fa la donna, ma è donna. Ed è questo un concetto molto lontano dall’essere femmina, l’essere donna è un apparire all’archetipo dell’apparizione per eccellenza secondo il vissuto di Bene».

E appare sempre più chiaro l’assunto di Luigi Squarzina secondo cui con la phoné la pura vocalità prevale sull’oralità. Non a caso, nel 1983, quando Bene “apparve” nel teatro antico di Taormina, scrivevo: «Non v’è dubbio che in “Egmont” Carmelo Bene faccia il tifo per Beethoven che l’ha musicato piuttosto che per Goethe che l’ha scritto». La parola è armonia, non ha bisogno di senso come siamo abituati a intenderlo, e, ovviamente, è femminile.

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