Nella seconda metà degli anni Ottanta, mentre faceva le ricerche per Marianna Ucrìa, Dacia Maraini s‘imbatté in una cronaca della peste a Messina. Fu un anno terribile, il 1743, iniziato, come racconta lo storico Orazio Turriano, il 20 marzo, con l’arrivo in porto di una tartana, carica di tessuti, che veniva dalla Grecia. Si fecero i dovuti controlli e si seppe dal capitano che uno dei marinai era morto, e quando due giorni dopo morì pure il capitano, il cui corpo portava i segni della peste, la nave fu sequestrata con tutto quel che c’era dentro. Ma il contagio, nonostante i provvedimenti delle autorità, fu inevitabile e si diffuse in tutta la città estendendosi anche nel resto della Sicilia. Su questo fatto così “vicino” al nostro presente per le sue impressionanti analogie (compresa la seconda ondata che allora fece altre vittime), ha messo le sue mani di romanziera Dacia Maraini, trasferendolo nella narrazione del romanzo appena uscito, “Trio. Storia di due amiche, un uomo e la peste a Messina” (Rizzoli), scritto nel ritiro e nel silenzio dovuti alla pandemia. Un racconto in forma epistolare con due amiche, Annuzza, che vive a Messina, e Agata, che abita a Palermo, unite da un legame di amicizia nato in collegio, tra i giardini palermitani, quando da bambine imparavano a ricamare sotto l’occhio severo di suor Mendola, o giocavano con una palla di stracci, ma senza competere, condividendo il «linguaggio allegro e arcano del gioco» e nutrendosi di letture e di sogni, un modo per uscire dalla minorità della condizione femminile del tempo. Ad Agata, sposata con il bel Girolamo e madre di una bambina, piace Calderón de la Barca, «che caccia il naso nel mistero del potere, nel mistero dell’amore»; Annuzza, che non è maritata, preferisce Corneille e «le tensioni che il drammaturgo mette in scena», anche se entrambe amano Rabelais, Molière e Villon. Pure Annuzza è innamorata di Girolamo, che è in bilico, come Rodrigo Díaz de Bivar del Cid di Corneille, fra l’amore e il dovere. Un triangolo singolare, anche se a momenti doloroso, un “trio” al quale le due amiche si adattano, consapevoli che niente e nessuno potrà rovinare la loro amicizia. E ora che si ritrovano, in un lungo anno di isolamento, Agata a Castanea, sui colli peloritani, e Annuzza a Casteldaccia, a pochi chilometri da Palermo, si scrivono raccontandosi l’amore per Girolamo, insieme a paure e passioni, letture e sogni di una quotidianità sospesa nella bolla dell’attesa. L’amore è un bel mistero e le donne sono brave a vivere le contraddizioni e trasformarle in ricchezza emotiva: è ciò che ci racconta la Maraini, indagatrice raffinata dell’universo femminile, in questo romanzo pieno delle voci e dei colori della “sua” Sicilia. Un cammino difficile, quello che Agata e Annuzza stanno vivendo, come il tempo di morte e di dolore che stanno attraversando, ma con la sola certezza del futuro che è la loro amicizia. Dacia, questa storia attendeva di essere scritta. Come è nata e perché vede la luce oggi? «Come ho scritto nella prefazione, durante la segregazione obbligatoria mi sono ricordata della cronaca della peste di Messina nell’anno 1743 e delle emozioni che mi aveva dato la lettura di quel testo. L’ho ripreso per farne un racconto quando il mio amico di Bagheria, Vincenzo Drago, un grande siciliano, coraggioso e fattivo, mi ha chiesto un romanzo per la sua piccola casa editrice. Il racconto è stato pubblicato nel 2006. Poi l’ho dimenticato. Per tornare a pensarci durante l’isolamento di questi mesi». Un trio, due donne e un uomo, due città, Palermo e Messina, e la peste. Come stanno insieme queste cose? «Stanno insieme come stanno misteriosamente insieme le cose più lontane nella vita di tutti i giorni». Anche questa volta due personaggi femminili bussano alla sua porta di scrittrice e le fanno visita. Per raccontarle cosa? «L‘amicizia femminile che è sempre stata scoraggiata e censurata. L’amicizia non è solo un sentimento, è anche una pratica culturale. Vivere l’amicizia come la vivono Annuzza e Agata è segno di una libertà conquistata con la sublimazione e il rispetto di sé e dell’altro». Due amiche-sorelle ma diverse, Annuzza e Agata. L’una, come lei scrive, «ama i grandi gesti e le passioni proibite, l’altra preferisce il sogno e la vita segreta». Ma una cosa le unisce, a parte lo stesso uomo amato: i libri. «Infatti, sono cresciute insieme scambiandosi idee e libri». La storia è ambientata nel Settecento, un secolo che l’ha molto ispirata, narrativamente parlando. Un secolo di donne audaci e coraggiose. «Un secolo fecondo e grandioso per la Sicilia che era allora il centro del Mediterraneo e dava vita a grandi pittori, grandi architetti, grandi filosofi». Anche la struttura epistolare è in debito col Settecento? «Io ho sempre amato la forma epistolare. Sia in “Dolce per sé” che in “Chiara di Assisi” uso questa pratica letteraria che dà importanza alla voce e al pensiero». Ci sono molti temi che attraversano il suo racconto. E se il principale è l’amicizia solidale, la complicità tra le donne, e nel chiaroscuro traluce quello della maternità, la cornice è la peste, una epidemia endemica che oggi si ripropone nella sua drammaticità e nei suoi ricorrenti effetti raccontati da tanti narratori. «È difficile raccontare le cose mentre le stiamo vivendo. La letteratura si nutre di memoria. Si può raccontare l’oggi parlando di un ieri che allunga ombre simili sul terreno». Il mondo, tuttavia, non migliora. Quando “scoppia” un’epidemia, cosa si rompe, secondo lei, nel rapporto dell’uomo con l’ambiente? E che mondo ci aspetta? «Veramente i rapporti dell’uomo con l’ambiente non si sono rotti con la pandemia, ma molto prima con la nostra mania di costruire senza criterio, radere al suolo le foreste, inquinare l’aria e le acque, fare sciogliere i ghiacciai, caricare il mare di plastica. Semmai la pandemia ci dice che stavamo esagerando, che dobbiamo fermarci a riflettere, che ci avviavamo verso il precipizio da cui non si torna indietro. Io spero che la lezione serva e che ci costringa a cambiare stile di vita».