Nata a Messina, cresciuta a Bologna dopo l’infanzia in Sicilia e abitante a Roma: la scrittrice Maria Rosa Cutrufelli è al suo nono romanzo, “L’isola delle madri”, pubblicato da Mondadori (pagine 234, euro 18), in cui per la prima volta ambienta le sue pagine in un futuro abbastanza probabile anziché rivisitare “al femminile” temi di ambientazione storica. Saggista oltre che narratrice, la Cutrufelli è stata sempre impegnata nel movimento femminista, firmando anche inchieste sullo sfruttamento delle donne. Le piace, spiega, «visitare tutti i Sud del mondo» e per questo si è fermata per tre anni in Africa (da quell’esperienza la scrittura di “Mama Africa”). Tra i suoi romanzi ricordiamo “La briganta”, “La donna che visse per un sogno”, “I bambini della Ginestra” e il penultimo, “Il giudice delle donne”, una storia che vede protagoniste dieci maestre nei primi del Novecento. Con lei abbiamo parlato del suo nuovo romanzo e di altri temi legati alla sua ispirazione letteraria. “L’isola delle madri” è diverso dalle sue precedenti esperienze narrative. Ci propone un’attualità legata al futuribile, al tema dell’inquinamento e a quello della crisi della maternità per come è stata intesa dal punto di vista sociale e da quello biologico. Cosa ci vuole proporre: interrogativi o anche soluzioni? «Magari fossi in grado di proporre soluzioni! Mi limito, molto semplicemente, a raccontare un mondo e una società che stanno cambiando e delle donne e degli uomini che cercano di reagire (non sempre per il meglio). I temi sono complicati, cioè l’inquinamento e i riflessi che ha sulla riproduzione umana, la Terra ci sta restituendo i nostri veleni. Sì, questo libro è diverso dagli altri perché non scavo nel passato ma ipotizzo un possibile futuro. Ma attenzione: ciò che immagino è successo almeno una volta in qualche parte del mondo. E vuole essere anche un luminoso inno alla vita, che ripone ogni speranza nella capacità delle donne di parlarsi, unirsi, lottare e costruire insieme». Le sue “personagge” sono esemplari della realtà di oggi: come e perché? E qual è il suo personale rapporto con la maternità? «Si racconta sempre la “realtà di oggi”, anche quando la proiettiamo nel futuro o la ripeschiamo nel passato. Nessuno può davvero sottrarsi al proprio tempo. In quanto alla maternità, siamo tutti figli, no? Perciò il rapporto con la madre ci riguarda tutti: uomini e donne, donne che a loro volta sono madri e donne come me, che non lo sono». La sua scrittura ha privilegiato le donne fin dalla sua intensa attività femminista negli anni Settanta. Qual è il senso del femminismo oggi? E come si può evolvere? «Il femminismo esisterà finché le donne saranno il “secondo sesso”. Come si evolverà è difficile dirlo, perché è un movimento globale e quindi ha mille facce e mille e diversi modi di procedere». Ha sempre preferito la definizione di “scrittura a firma femminile” piuttosto che quella di “letteratura femminile”. Perché? C’è una sorta di rivendicazione di un ruolo delle donne mai effettivamente paritario? « “Femminile” è solo un aggettivo qualificativo, e le “qualità” del maschile e del femminile sono volatili, cambiano nel tempo e nello spazio, perciò significano ben poco (anzi, spesso, non significano nulla se non l'adesione a uno stereotipo). Invece dietro una “firma femminile” c'è una donna in carne e ossa, con la sua singolarità». Lei ha raccontato: «Mio padre era scienziato, emigrato dalla Sicilia a Bologna, dove lavorava come direttore dell’istituto di igiene ed esperto di inquinamento atmosferico. Tornavamo in Sicilia spesso, il legame con l’isola non era mai spezzato. Ogni volta che ci tornavo, mi rendevo conto, anche stando a Bologna, che essere meridionale era un peso, che esisteva il razzismo. Da qui è scaturita la mia graduale presa di coscienza e la sfida a mantenere una mia personale forma di meridionalismo, un mio retaggio personale». Come definirebbe questo suo meridionalismo? «Le radici sono quelle che ti fanno crescere. Sono la nostra storia. Io le ho usate in tutti i miei libri rievocando la storia antica dell’Unità d’Italia e quella più recente, come la strage di Portella della Ginestra. Essere donna ed essere siciliana sono i marchi che mi porto da sempre sulla pelle». Lei è nata a Messina, ma ha trascorso la sua infanzia a Graniti. Che cosa ricorda di quella Sicilia? «Era una Sicilia dura, povera, senza scampo. Ma così bella! Graniti è dominato dall’Etna, che è rimasto sempre nella mia immaginazione. E poi, per me non è un caso, al contrario del Vesuvio che è maschio, l’Etna è femmina, con i fianchi larghi e le colate lente. La chiamano “la Montagna”. Poi ricordo anche la nettissima differenza sociale fra i braccianti e chi possedeva un pezzo di terra, anche piccolo. Quando sono emigrata a Bologna ho trovato una società più egualitaria che mi ha costretto a riflettere. Ricordo anche la condizione femminile nella Sicilia di allora: all’interno delle case vigeva il matriarcato, ma fuori per le donne c’era uno stato di non esistenza. Sì, anche questo può aver contributo ad avviarmi sulla via del femminismo». Oggi le scrittrici messinesi hanno un posto di rilievo nel panorama italiano: da Nadia Terranova, finalista allo Strega nel 2019 (ricordiamo che lei lo è stata nel 2004 con il romanzo “La donna che visse per un sogno”) ad Alessia Gazzola, vincitrice del Bancarella (e dietro premono altre autrici). Cosa pensa di loro? «Sono fiera delle mie giovani colleghe. Ciascuna a modo suo, racconta il mondo (non solo la nostra isola: il mondo). Con loro, finalmente, la Sicilia mostra di essere una terra di grandi donne, non solo di grandi uomini».