«Se Fellini non avesse mai girato “8 e 1/2”, forse non avrei mai fatto il regista». Bolognese, classe '38, Pupi Avati è fra i cineasti più prolifici, avendo diretto 50 film, scritto 51 sceneggiature e vinto 3 volte il David di Donatello. Instancabile, Avati osserva il mondo che muta e lo sovrappone alla realtà contadina della propria infanzia, creando contrasti e spaziando nel mondo della narrazione. E il mese prossimo tornerà sul set guidando la trasformazione di Massimo Boldi in attore drammatico. Autore di 16 romanzi, celebra l'importanza cruciale della parola - «senza la libertà di narrare, non ci sarebbe nessuna storia, nessun libro, nessun film» - ma ormai da troppi anni ha in standby un grande progetto sulla vita di Dante Alighieri (dalla cui morte l'anno prossimo ricorreranno i 700 anni). Dal palco del Teatro Vittorio Emanuele, ospite d'onore, Pupi Avati ha inaugurato l'anno accademico dell'ateneo di Messina in una cerimonia costruita in collaborazione con il festival internazionale Taobuk (di cui quest'anno ricorre il decennale), rivolgendosi direttamente agli studenti, come un padre pieno di premure perché talvolta «è necessario andare via dalla propria terra per poterla raccontare». Maestro, fra il talento e la passione chi trionfa? «Vede, le masse non sono mai state il mio interlocutore preferito e parlando agli studenti dell'ateneo di Messina, l'ho fatto come se parlassi a ciascuno di loro, uno alla volta. Fra talento e passione dovremmo avere sempre il coraggio di preferire il primo, scegliendo di privilegiare le nostre facoltà nel momento in cui si guarda al futuro. Sa, avrei voluto essere un musicista e mi ero illuso di poterlo fare con una certa soddisfazione finché non ho incocciato Lucio Dalla sulla mia strada. Lui sì che aveva talento ma da quella doccia fredda, da quegli anni difficili, è germogliata una nuova vita, con la scrittura e il cinema…» Qual è il suo rapporto con questa terra, la Sicilia? «Un rapporto misterioso che deve rimanere tale perché possa continuare ad affascinarmi. La Sicilia è una terra di letterati e di bellezza non soltanto naturali, legata a periodi storici. Una terra con un passato straordinario da rivendicare che troppo spesso viene raccontata, dal cinema e dalla televisione, come un tripudio mafioso. Perché voi siciliani vi accontentate di un racconto stereotipato? Non sentite la necessità di mutare il punto di vista sulla vostra terra?» Che soluzione immagina? «Forse è necessario andar via per capire davvero l'essenza delle cose. Io volevo disperatamente raccontare la mia Bologna ma solo quando sono andato a lavorare a Roma ho potuto farlo, cambiando contesto e punto di osservazione sulla realtà. L'assenza produce la presenza delle cose. La Sicilia avrebbe bisogno di un recupero narrativo in modo, finalmente, carismatico senza ridursi a cartoline per viaggiatori». Da lungo tempo lei insegue un grande progetto sulla vita di Dante. A che punto siamo? «È un tasto doloroso. Una colpa gravissima da parte della committenza. Siamo prossimi ai 700 anni dalla morte di Dante Alighieri e dal 2001 c'è un impegno scritto che sino ad oggi è rimasto silente. Ho completato la sceneggiatura del film sulla vita con un emerito comitato di studiosi di Dante, con la massima garanzia sull'attendibilità di ciò che vorrei raccontare. Un progetto grandioso. Com'è possibile che l'italiano più famoso al mondo non abbia un film che ne celebri la vita?». E dell'istituzione del Dantedì, cosa pensa? «Un'iniziativa simpatica e generosa ma non incisiva. Il mio progetto è basato sul “Trattatello in laude di Dante” scritto dal Boccaccio nel Trecento, facendo emergere un sincero trasporto. Boccaccio per otto anni è stato contemporaneo di Dante e alla sua scomparsa ha parlato con la moglie, ne ha incontrato i figli, cogliendo informazioni straordinarie di prima mano, del resto proprio la tenacia di Boccaccio, anche nei panni del copista, copiando “La Vita Nova” e diverse volte da “La Divina Commedia”, ci ha permesso di conoscere davvero chi fosse il sommo Dante. La lingua italiana poggia su Petrarca, Boccaccio e Dante, in questo progetto ne racconto due su tre eppure nonostante gli impegni presi, tutto tace. È un film destinato a tutto il mondo, ma per qualcuno Dante è noioso. Invece, il film sulla vita di Chiara Ferragni è stato prodotto in un baleno…». Pochi giorni fa è scomparso Flavio Bucci in condizioni economiche critiche. La spaventa il disamore del mondo dello spettacolo? «Non capita solo agli attori. Ho vissuto gli ultimi anni di Federico Fellini e Ugo Tognazzi, periodi bui in cui nessuno gli rispondeva più al telefono. E che dire di Orson Welles, il regista dei registi? Morì cercando l'ultimo finanziamento, come fosse un accattone. È molto triste». Oggi le produzioni sono dominate dal mondo dello streaming e delle serie tv. Cosa ne pensa? «Non ho nessun tipo di pregiudizio in merito. Netflix produce in modo generoso ma sembra non avere un criterio, puntando tutto sulla quantità. I docufilm sono straordinari ma molte serie sono davvero orrende e trovi tutto affiancato. C'è una sorta di bulimia produttiva, producono il brutto e il bello in modo indiscriminato». Nel 2016 presentò il suo romanzo “Il ragazzo in soffitta” al Taobuk. Cosa ricorda? «Fu una bella esperienza in una cornice suggestiva. Oggi sto scrivendo il seguito del mio ultimo romanzo, “Il Signor Diavolo”». Da cui ha tratto il suo film più recente in una comunità contadina. Lei crede nel Male? «Sono una persona ostinatamente credente. Con tutte le difficoltà del caso. Credendo al sommo bene, immagino la compensazione del male e nella cultura contadina è contemplata persino la figura del Diavolo. Oggigiorno in chiesa, durante l'omelia, non si parla più di queste cose, la spiritualità ormai è qualcosa di marginale che si prende con le pinze e i preti sono diventati assistenti sociali. Ma il male assoluto esiste, io l'ho incontrato davvero. E adesso sto scrivendo il seguito di quel romanzo». C'è anche un nuovo progetto cinematografico in partenza. «Il prossimo mese inizieremo a lavorare su “Lei mi parla ancora”, un film tratto dal romanzo di Giuseppe Sgarbi, il padre di Vittorio ed Elisabetta. Il protagonista sarà Massimo Boldi, in una grande sfida drammatica; lo gireremo fra Roma e Ferrara e al suo fianco ci saranno Fabrizio Gifuni, Alessandro Haber, Stefania Sandrelli e Isabella Ragonese». Proprio dalla sua Bologna è nato il movimento delle Sardine. Cosa ne pensa? «L'espressione di una Bologna borghese che si diverte molto, e sorride, ma chi ha un'attività e dipendenti da pagare, non ha tempo per andare in giro per le piazze, mettendoci i cerchietti in testa e cantando “Bella ciao”. È un movimento che è servito tantissimo e ha aiutato Bonaccini a trionfare in Emilia Romagna ma credo sia destinato ad esaurirsi da solo».