Sul terremoto del 28 dicembre 1908 a Messina si è scritto e riscritto spesso a sproposito, ripetendo, alimentando ed amplificando luoghi comuni senza fondamento storico come le vittime, 80.000 secondo l'immaginario popolare, 30.000 in città (più credibili) secondo l'autorevole Enciclopedia Treccani o il maremoto con onde da tsunami alte fino a cinquanta metri (!) che superarono addirittura la Palazzata per riversarsi all'interno della città quando in effetti onde di maremoto apprezzabili si registrarono, ma solo nel litorale sud di Messina. Un altro luogo comune è quello che vuole che Messina sia stata distrutta totalmente dal terremoto ma le cose non andarono esattamente così.
Il sisma e la dinamite
Il sisma fu disastroso, come annotarono gli addetti all'osservatorio Ximeniano di Firenze: «Stamani alle 5,21 negli strumenti dell'Osservatorio è incominciata una impressionante, straordinaria registrazione. Le ampiezze dei tracciati sono state così grandi che non sono entrate nei cilindri: misurano oltre 40 centimetri. Da qualche parte sta succedendo qualcosa di grave». Ma molti edifici, chiese e palazzi, rimasero illesi o ebbero pochissimi danni facilmente restaurabili.
Nella realtà, vennero abbattuti con la dinamite alimentata dalla speculazione edilizia e dagli affaristi della ricostruzione di Messina. È ciò che ho cercato di dimostrare con la conferenza tenuta in una gremitissima chiesa di San Giovanni di Malta, organizzata dagli assessorati alla Protezione civile e alla Cultura e dall'esperto del sindaco ing. Antonio Rizzo, con la collaborazione dell'associazione Aura. Con la proiezione di numerose foto, molte delle quali inedite, ho passato in rassegna gran parte dei monumenti mettendoli a confronto prima del sisma e dopo il sisma, appunto “un minuto prima, un minuto dopo”.
Il duplice flagello
Già nel 1911, in un libro dal titolo “Un duplice flagello. Il terremoto del 28 dicembre 1908 a Messina e il governo italiano”, il messinese Giacomo Longo testimone oculare, con grande coraggio si assunse l'onere di raccontare con la massima verità, con la massima obbiettività, con la massima sincerità i giorni del terremoto, contrapponendosi al forte potere costituito del Governo italiano (appunto, l'altro flagello dopo il sisma) denunciandone, con coraggio, crudeltà, misfatti, gravi inadempienze e inefficienze, vessazioni, atti criminosi nei confronti dei messinesi superstiti: dallo stato d'assedio proclamato dal generale Mazza, forte di “diecimila fucili e cento cannoni”, all'imboscamento delle trentamila tende e trentamila coperte destinate ai superstiti dalla Francia e dall'Inghilterra; dalle ruberie di denaro e preziosi che i soldati al comando del generale Mazza spedivano ai parenti, al mancato soccorso delle centinaia di feriti lasciati a morire; dall'immensa quantità di generi alimentari chiusi nei magazzini della Cittadella alla distribuzione, ai superstiti, di “pane nero e pasta ammuffita”; dalla negazione perfino di un sorso d'acqua agli scampati, all'assassinio del figlio del prof. Melle, sorpreso dai soldati mentre scavava con le mani in via Cardines alla ricerca della famiglia lì sepolta, sotto le macerie.
E lo fece senza nascondersi dietro vigliacchi pseudonimi che ne avrebbero garantito un comodo anonimato ma con l'animo talmente esacerbato e il disgusto per tutte le nefandezze alle quali gli toccò assistere di chi, sapendo di essere nel giusto, non si tira indietro davanti alle proprie responsabilità. L'estrema pulizia morale del Longo lo porta, addirittura, ad autodenunciarsi fornendo anche l'indirizzo della modestissima baracca dove abita: «In qualunque tempo e in qualunque luogo vorranno catturarmi, io non mi farò tanto cercare. Mi troveranno sempre in seno alla mia famiglia, in una baracca del Genio civile segnata col numero 52...».
Le distruzioni del “dopo”
Alle sofferenze fisiche e morali dei superstiti del terribile sisma, si aggiungevano anche le feroci, premeditate e indiscriminate distruzioni di chiese, palazzi ed edifici di abitazione risparmiati dalle scosse telluriche.
E all'ira impotente del Longo, faceva eco quella disperata di Gaetano La Corte Cailler che vedeva cadere sotto le esplosioni della dinamite, una dopo l'altra, preziose e indenni testimonianze monumentali del grande passato architettonico ed artistico della città.
Nello stesso anno in cui vedeva la luce il libro-denuncia di Giacomo Longo, il La Corte Cailler annotava nel suo “Diario” (pubblicato nel 2002 a cura del compianto Giovanni Molonia) ad esempio, a proposito della splendida Palazzata di Giacomo Minutoli (1803) che per metà della sua lunga estensione, dall'edificio della Dogana al Palazzo Municipale, era rimasta in piedi e perfettamente recuperabile: «4 settembre, lunedì, 1911. Si deliberò un lungo ordine del giorno per la conservazione e riparazione dell'antico Palazzo Senatorio, ma Borzì insistette a più non posso in contrario, mentre Papa fu felicissimo e convincente nella difesa... 27 settembre, mercoledì. Oggi perviene al Municipio il lungo verbale della seduta della Commissione di Antichità e Belle arti, riguardante il Palazzo Senatorio che si desidera conservato. Patriottica e ben fatta la difesa dell'ing. Papa: quanto ha esposto Borzì, chiedendo la demolizione, depone assai male di lui». Nonostante la difesa dell'ing. Papa, quanto restava dell'illesa Palazzata veniva fatto saltare in aria, con l'esplosivo, nel 1913!
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