Quando Carlo Quartucci venne per l'ultima volta nella sua Messina, nel novembre del 2017, insieme con la sua fondamentale compagna d'arte e di vita Carla Tatò, per una due giorni di incontri, lo vidi anche in una versione più privata, quando uscendo dall'albergo si apprestava a farsi accompagnare alla stazione. Fui colpito dal grande numero di bagagli: non solo valigie, ma anche una sorta di “rappresentazione” di una casa o meglio di una “casa-teatro”. Questa stranezza (razionalmente giustificata dal fatto che la coppia, prima di Messina, era stata a lungo a Palermo, impegnata nell'allestimento di “Guerrin Meschino”, tratto da Bufalino) era l'evidenza - scenica, mi verrebbe da dire - del rapporto mai finito con il teatro “scavalcamontagne” del padre Antonino Manganaro, messinese e capocomico, e della madre Angela Quartucci, in arte Lina Maschietto, napoletana, canzonettista e attrice. «Sono cresciuto dietro le quinte dei teatri - raccontava lui - , viaggiando lungo Sicilia, Calabria e Campania. I cavalli di battaglia di mio padre erano Verga con "Cavalleria rusticana" e Pirandello con "Il berretto a sonagli"; ricordo un "Amleto" in siciliano, ridotto da lui stesso. La storia del brigante Musolino andava avanti a puntate. Visto il successo, mio padre ogni sera ne scriveva una parte nuova». Adesso che Carlo Quartucci ci ha lasciato a 81 anni, proprio nell'ultimo giorno del 2019 dopo alcuni mesi di malattia, si deve ridiscutere del suo teatro che lo ha visto protagonista dagli anni 60 agli anni 80, riconosciuto padre della sperimentazione, uno che da regista ha diretto Carmelo Bene, Leo De Berardinis, Mario Ricci, Claudio Remondi e molti altri (fra cui un quasi esordiente Gigi Proietti nello sceneggiato tv della Rai “Don Chisciotte”). Eppure per capirlo bene, secondo me, si deve partire da quell'avventuroso teatro itinerante, che, nell'ambito di una tradizione conclamata, non aveva i confini fissi né di un testo (che si adattava al pubblico) né di una quarta parete, travolta dalla partecipazione emotiva di spettatori che non erano gli “intelligenti” e “colti” abbonati dalle esanimi reazioni, ma rappresentanti dei paesi contadini del Sud, capaci di emozioni e partecipazione. Quartucci amava citare Heiner Müller: «Un vero teatro, nuovo e d'avanguardia, deve resuscitare i morti». Temo che per “morti” intendesse gli abbonati. E lui, nell'esperienza con gli stabili, a Genova e a Torino, e con la Biennale di Venezia, scardinò qualsiasi parete, suscitando dibattiti che talvolta duravano più dello spettacolo, ottenendo dissenso e consenso di spettatori finalmente vivi e reattivi con messinscene - soprattutto “Zip” di Giuliano Scabia alla Biennale di Venezia del 1965 - che furono il contrario di ciò che si aspettavano i tanti critici legati allo schema di un testo ben definito, uguale per ogni replica. Sicurezze che già mettendo in scena Beckett (il suo esordio, nel 1959, fu “Aspettando Godot”) aveva cominciato ad abbattere. Pur dando valore, ancor prima di Bene, al concetto di “scrittura scenica” destinata a variare ogni replica, Quartucci non ha mai rinnegato la parola, semmai ne ha fatto un uso non consueto, ha studiato la phoné, tanto da raccontare come lo stesso Bene la scoprì quando alla radio recitò “Tamerlano”, diretto da lui (1974). Tuttavia rimaneva il concetto che le emozioni dovessero venire prima dalla vista e poi dalle parole. Così inventò (grazie alla passione per l'arte figurativa e agli studi di architettura per i quali il padre gli aveva consentito di partire da Messina) scene che si trasformavano, concatenate a moduli, e poi anche proiezioni di video (già negli anni 70) e uso vitale delle amplificazioni, più la collaborazione con grandi artisti, a cominciare da Jannis Kounellis, esponente dell'Arte Povera. L'esperienza nella compagnia dei genitori è anche una delle ragioni per spiegare la successiva fase di “Camion”. Quartucci la raccontava così: «Cominciai nel 1970, presi anche la patente da camionista. Riproducevo il suono con alta tecnologia. Potevo raggiungere qualunque paese, qualunque periferia, qualunque piazza. La gente veniva e "Camion" diventava ogni cosa: asilo nido per i più piccoli o ospedale psichiatrico quando siamo andati fra i pazzi. "Camion" era autonomo, bastava un cavo e cominciava a suonare e fare spettacolo con le narrazioni: storie teatrali, storie di vita». Non si faceva più chiamare regista ma “servo di scena”, scaricava i materiali e anche gli attori perché lui si rapportava - sempre senza schemi fissi - con tutto ciò che serviva allo spettacolo. A un regista così sperimentale la Rai affidò, tra l'altro, due sceneggiati rimasti famosi: il citato “La fantastica storia di don Chisciotte della Mancia” (1970) e “La rappresentazione della terribile caccia alla balena bianca Moby Dick” (1973), con Franco Parenti, testi di Roberto Lerici, in cui Quartucci fece recitare anche il padre Manganaro (sul perché Carlo avesse il cognome della madre basti dire che si tratta di una storia alla Scarpetta - De Filippo, con uno stesso padre per due famiglie, questa però con il lieto fine del matrimonio in tarda età). Impossibile raccontare tutto Quartucci in un articolo, ricordo solo l'esperienza della “Zattera di Babele”, negli anni 80 a Erice, in cui il regista unì teatranti, pittori, poeti e musicisti per un dialogo tra varie forme d'arte, e la laurea honoris causa che gli fu conferita nel 2002 nell'Università di Torino. Il resto è un magma infinito e attuale nei mille rivoli del teatro contemporaneo d'avanguardia, dove si propongono, in forma ridotta e meno coraggiosa, idee che Quartucci ha già attuato decenni fa. Ma lui aveva alle spalle la decisiva esperienza di ragazzino “scavalcamontagne”; due anni fa, al Vittorio Emanuele si era presentato così: «Io sono di Messina. Ho esordito in teatro facendo Gesù Bambino nella compagnia di papà e mamma». La sua anima era rimasta quella, coltivata all'interno di una mente geniale e realizzativa.