S’avvicina Natale, e sarà ancora un Natale dei “tempi nuovi”, risplendente di luci ma senz’anima. Non più il tenero intimo Natale di anni ormai lontani. Di quegli anni, affiorano d’incanto i ricordi sfogliando le pagine di “U ciaramidharu a Messina”, di Nino La Camera, notevole saggio stampato dallo Stab. Tip. S.T.E.M. nel 1959. Nino La Camera, messinese di Giostra, fu accorto e appassionato cultore di tradizioni popolari siciliane. Dopo il saggio citato, pubblicò, tra l’altro, Suonatori e canti popolari messinesi (1960) e Novenistica popolare siciliana (1961). I suoi scritti, frutto di metodiche ricerche sul campo, meriterebbero maggiore attenzione. Sono infatti documentati a dovere, esposti con ammirevole chiarezza e particolarmente ricchi di originali, preziose testimonianze, il più delle volte inedite. Ancora all’epoca in cui il nostro folkorista stilava questo suo saggio, u ciaramiddaru appariva in città di primo mattino l’8 dicembre, festività dell’Immacolata Concezione. Ci si svegliava al dolce suono della zampogna. Era atteso, lo zampognaro. Egli andava visitando i suoi consueti “clienti”, i parrucchiani, che s’affrettavano a “prenotarlo” per la Novena. Il suo rituale saluto: Benediciti e buongionnu, sugni chiddu i oggi all’anno. Chi fa, a voli sunata, ossia? Perciò lo zampognaro ancora in città il 16 dicembre, e giorno dopo giorno fino al 24. Ed allora, eccolo di casa in casa, di bottega in bottega, davanti al presepio a soffiare nell’otre per trarvi suoni antichi, melodie soavi. Al suono della ciaramedda, le donne in ginocchio a recitare litanie e orazioni, e i nostri vecchi lì trasognati a mirare il presepe quasi che fossero di fronte all’Altissimo…. Nella vecchia Messina, u ciaramiddaru era figura meritevole del massimo rispetto. La giacca di velluto scuro, u cappottu d’abbraciu, a cappotta d’incirata, u birittuni i pilu oppure a meusa. E i casuneddi d’abbraciu stretti sotto i ginocchi, i zammitti o i calandrelli ai piedi… Tutto questo conferiva allo zampognaro un aspetto dei più caratteristici. E poi era simpatico ai bambini, che amavano corrergli dietro e allegramente, affettuosamente dileggiarlo:Nneru, nneru lu ciaramiddaru, quattr’e cinqu a lu pagghiaru, a ricotta senza seru, si la mancia lu pecuraru… “I ciaramiddari”, annotava sessant’anni fa La Camera, “vengono giù dai paesi prossimi alla città, ma anche da quelli lontani della provincia…I migliori sono sempre stati i castanoti, i massoti, quelli di Montalbano Elicona”. I ciaramiddari che lo studioso doveva vedere scendere dalla fiumara di San Michele… “Mio padre”, aggiungeva, ”che morì a novantuno anni nell’ottobre del 1957, ricordava mastru Paulu u Turnaru, che era un ciaramiddaru di città e suonava ogni anno nel Santuario di Montalto. Ma a Messina non aveva molta fortuna, perché i messinesi preferivano i ciaramiddari i paisi, che meglio richiamavano alla loro memoria la fisionomia dei pastori… I più vecchi ricordano ancora u zu Vanni Camarda, di Calamarà. Un suo nipote suonò in casa di mio padre dal 1910 al 1933.” Compiuta la Novena, lo zampognaro s’affrettava a congedarsi dai parrucchiani, era impaziente di tornarsene a casa, nella quiete dei campi: Datimi datimi li dinari, c’o paisi mi nn’ogghiu annari. Ma non mancava di trovarsi ancora in città per Capodanno e per l’Epifania. Naturalmente con l’inseparabile zampogna. Gli auguri di uno zampognaro poeta ad un generoso parrucchianu: Lu Capillannu nobili e ccillenti, ora spiramu mi s’u fa ossia, cu la famigghia e cu li so parenti, cu tutta la billissima cumpagnia.