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Il desiderio di raccontare la vita: Taobuk ospita Ian McEwan e Jhumpa Lahiri

Jhumpa Lahiri

Ascoltare è un esercizio che ti costringe a scremare e scartare, altrimenti rischi di subire l’assalto di parole inutili e banali. Ma quando la fonte irradiante è Ian McEwan allora resistenze, filtri e accortezze tirano il fiato e lasciano il campo a una spugna mai sazia. Ed è una sensazione spirituale che ha una sfumatura carnale, perché avverti una sorta di surreale dilatazione mentale.

Lo scrittore britannico, ospite di Taobuk (da cui ha ricevuto sabato sera il Taobuk Award for Literary Excellence), domenica ha incantato la piazza di Taormina che per una volta si è separata dal suo panorama per dedicarsi a un orizzonte più affascinante e profondo.

Il desiderio è la torcia che illumina i sentimenti, seme che si rinnova in letteratura: «Un desiderio non soddisfatto, come quello di Dante per Beatrice o di Petrarca per Laura. O se torniamo ad Adamo ed Eva sarebbe stata una storia noiosa senza il morso alla mela. Ed è una fonte interessante per il romanziere che scava nei sentimenti».

Ma non basta il terreno fertile per dare corpo a una storia, soprattutto se poi la storia si fa capolavoro. Così McEwan racconta il principio folgorante di “Nel guscio” (Einaudi), romanzo del 2017 («Dunque eccomi qui, a testa in giù in una donna»): «Ero immerso in una riunione noiosa, a un certo punto ho scritto su un foglio di carta questa frase. Non so perché, so che in quel momento ho avvertito un senso di libertà, l’inizio di un viaggio che attraversa le menti degli altri, si fa spazio nei loro desideri. Un’indagine che ti dà il piacere di scrivere».

E non basta neanche avere l’intuizione, l’idea che matura in un ventre misterioso, magico. Perché poi bisogna salire «sulle spalle dei giganti» per vedere l’orizzonte: «Non si può prescindere dalla tradizione dei classici, intesi come viventi e non come fantasmi. È il passato che forgia il presente. Un vero autore è soprattutto grande lettore, impegnato nella conversazione con la storia. La letteratura è democratica, accoglie tutti, basta un foglio e una penna. Ma un buon libro si scrive con la conoscenza, non con gli espedienti che molti giovani usano».

Il rapporto con i classici, però, non può essere opprimente, altrimenti diventa la prigione dello scienziato che non riesce a superare l’afasia perché ha sulle spalle i giganti: «E allora ti devi chiedere: come faccio a essere originale?».

Dalla letteratura alla politica, Ian McEwan non si sottrae alle pulsioni che agitano lo scenario mondiale e ribadisce la sua opposizione alla Brexit: «Sono preoccupato perché si stanno affermando forme di irrazionalità, di cui il populismo è solo una conseguenza. Posizioni contro le vaccinazioni, violenza antisemita. È come se fossimo colpiti dal virus dell’irragionevolezza, un gioco pericoloso. I social sono solo gli strumenti che hanno consentito alla parte più oscura dell’umanità di riemergere. Certo, vedo analogie con gli anni Trenta, ma non ci sono alternative all’Europa, un sistema imperfetto, con tanti difetti, ma nello stesso tempo un progetto eroico di comunità». Da difendere con impegno civile: «Dobbiamo prendere posizioni chiare contro le falsità che dilagano. Non ci possiamo crogiolare, ma siamo coinvolti in una missione volta a risolvere i problemi».

E poi c’è il futuro, l’ultimo libro dello scrittore britannico che uscirà in Italia nei prossimi mesi. “Machines like me” (Macchine come me) racconta il rapporto il rapporto tra l’uomo e il robot: «È una speculazione per spingere le persone a prendere coscienza. L’intelligenza artificiale ci obbliga a rivedere le nostre convinzioni morali, è una svolta epocale».

Ian McEwan si ferma qui, come se ci avesse indicato un percorso nuovo dietro un orizzonte invisibile. Poi alza gli occhi al cielo e indica una di quelle nuvole che assumono forme curiose: «Forse è quella gigantesca intelligenza che ci sovrasta». E sorride.

Subito dopo sul palco sale Jhumpa Lahiri (anche lei ha ricevuto il Taobuk Award sabato sera), premio Pulitzer che racconta il suo rapporto con l’Italia, l’amore viscerale per gli scrittori italiani, da Vittorini a Pavese, da Calvino a Moravia, da Sciascia a Pirandello. Una passione che l’ha spinta, lo scorso anno, a scrivere il suo primo romanzo in italiano (“Dove mi trovo”, Guanda) e ora a comporre un’antologia (“Racconti italiani”, Guanda), «perché ho potuto apprezzare l’impatto che gli autori italiani hanno sugli studenti: una volta, visitando Ortigia, mi sono ritrovata sotto la targa che ricorda Vittorini. È stata una forte emozione».

Ma l'italiano non è solo lingua letteraria. È, per la scrittrice statunitense di origine indiana, metafora del desiderio dell'ignoto che attrae, ricerca dello sconosciuto, orizzonte che nasce dal bisogno di andare via, di lasciare i luoghi amati, «quelli ai quali sono visceralmente legati i miei genitori».

Un conflitto di appartenenza che si ritrova nel suo ultimo libro, dove una donna di 45 anni vive una lacerante doppiezza: il desiderio di rimanere fedeli a un luogo, a una città, a una piazza e la necessità di varcare i confini, di scavalcare il muro. In questo interstizio la protagonista cammina come una trapezista sul filo.

E paradossalmente la forza misteriosa per non cadere nasce dalla condizione umana più debole, quella solitudine che diventa forza generatrice: «Mi serve per stimolare la creatività, c'è una parte sana nella solitudine che per me rappresenta un valore». Il rapporto con l'Italia rimane un punto che non ruota, almeno per ora: «La lingua è l’elemento chiave di tutta questa ricerca e del cambiamento».

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