Il compito fondamentale della didattica, è, insieme, di libertà e responsabilità; ed è un esercizio di cittadinanza attiva il fatto che la comunità debba restare vigile. E questo può farlo attraverso la scuola. La didattica dell'italiano deve tutelare la nostra lingua madre con la quale si esprimono le discipline umanistiche, quelle scientifiche e la cultura tutta, renderla strumento di coesione, di conoscenza e di ricchezza, per sviluppare attraverso la comprensione della parola il senso critico dei giovani.
È questo il messaggio che il linguista Luca Serianni ha rivolto a studenti e docenti incontrati a Messina per iniziativa del liceo classico “G. La Farina”, per riflettere insieme sulla didattica dell'Italiano in vista dei nuovi esami di maturità. Peraltro, proprio in questi giorni una polemica, sull'uso del dialetto in contrapposizione all'italiano, ha animato il dibattito pubblico, a partire dal caso mediatico del ragazzo Simone di Torre Maura e il suo dialogo, in romanesco, con un esponente di Casapound.
Luca Serianni ha collaborato assieme a un team di esperti con l'ex ministro dell'Istruzione Valeria Fedeli, per pensare alcune modifiche alla prima prova scritta della maturità, che debutterà a giugno. Gli studi dell'illustre studioso spaziano dal Medioevo al Novecento, dalla lingua letteraria ai linguaggi settoriali (in particolare, la lingua della medicina), dalla lessicografia del Settecento agli espressionisti, alla grammatica.
Allievo di un grande linguista, quale fu Arrigo Castellani, Luca Serianni, accademico della Crusca, dei Lincei e dell'Arcadia, direttore degli Studi linguistici italiani e degli Studi di lessicografia italiana, vicepresidente della Società Dante Alighieri e già docente di Storia della lingua italiana alla Sapienza di Roma, è autore di una fortunata Grammatica dell'italiano, più volte ripubblicata negli ultimi venticinque anni.
Oggi riflette e scrive sullo stato della lingua italiana (tra i suoi testi “Manuale di linguistica italiana. Storia, attualità, grammatica”, “L'ora d'Italiano. Scuola e materie umanistiche”; Leggere, scrivere, argomentare”) e si occupa soprattutto dell'insegnamento della lingua italiana (e della letteratura) nella scuola, offrendo, nei tanti incontri in tutta l'Italia, proposte didattiche che sgombrino il campo da luoghi comuni, pregiudizi e semplificazioni.
Professore, qual è oggi il “sentimento linguistico” del nostro Paese? E come sta in salute la nostra lingua?
«In apparenza, il “sentimento linguistico” degli italiani non è particolarmente forte. Ma, se pensiamo alla reattività generale di fronte a vere o presunte infrazioni alla norma, ci rendiamo conto che il senso d'appartenenza linguistica esiste e che, anzi, in una società storicamente frammentata come la nostra è un elemento di coesione. Significative, in particolare, le recenti polemiche sulla legittimità di “uscire” transitivo (uscire il cane; costrutto tipico dell'italiano regionale meridionale invece di far uscire il cane)».
Al Salone del Libro di Torino dello scorso anno si discuteva, insieme con altri due illustri linguisti, Sabatini e Coletti, della necessità che la lingua stia al passo con i tempi e che però se ne salvi la complessità. Come fare per conciliare le due cose in tempi nei quali si mira per tanti aspetti alla semplificazione?
«La lingua continua a essere complessa negli ambiti che si sottraggono alla quotidianità, cioè nell'italiano scritto nelle sue varie forme, dall'editoriale di un giornale al referto di un medico, alla sentenza di un giudice. È una complessità che si nota a tutti i livelli, dalla sintassi, a forte indice di subordinazione (linguaggio giuridico), al lessico specialistico (diritto e medicina), al lessico non banale e all'uso ironico, quindi dotto e consapevole, del linguaggio (editoriale)».
I nuovi linguaggi e le nuove tecnologie hanno rafforzato l'italiano standard. Si può parlare, per paradosso, di una nuova unità linguistica nazionale?
«Direi che l'unità linguistica si deve non alla diffusione di nuove tecnologie, ma alla conquista di un italiano parlato comune, rispetto alla molteplicità e all'esclusività dei dialetti. Tutto questo si è compiuto nel corso degli ultimi decenni; ormai l'italiano parlato è condiviso dalla quasi totalità dei cittadini, anche se molti di essi (quasi un terzo) alterna, a seconda delle situazioni comunicative, italiano e dialetto. Ma questo non è certo un male: possedere un codice espressivo in più arricchisce le possibilità linguistiche di ciascuno di noi».
Pubblicità, fiction, reality, talk show, esibizioni politiche hanno mutato la percezione corretta del significato delle parole. Alla Biennale Democrazia di Torino di fine marzo Lei ha parlato della lingua del Palazzo e di come a un certo punto nei discorsi irrompa l'«io» assieme all'uso di modi istintivi e irriflessi. Quando è iniziato tutto ciò?
«Una prima spinta è venuta dalla diffusione radiofonica delle sedute delle Camere per iniziativa dei Radicali: a quel punto i parlamentari, sapendo di essere ascoltati da una platea molto più vasta dei loro colleghi, hanno cominciato a inseguire modalità tipiche del parlato. Il processo è poi divenuto imponente con l'avvento dei nuovi media e con l'abitudine di molti politici (al di fuori dell'Italia pensiamo a Donald Trump) di esprimersi con tweet e con ampio ricorso ai social media, situandosi intenzionalmente sulla stessa lunghezza d'onda dell'uomo della strada; è un processo che il linguista Giuseppe Antonelli ha definito come “effetto rispecchiamento”».
Lei spesso ribadisce la necessità che i giovani leggano non solo romanzi ma testi con i quali possano trovarsi di fronte a linguaggi astratti. Ma cosa consigliare a dei ragazzi molto giovani?
«Esistono molte letture che potrebbero essere interessanti per adolescenti. In una grande libreria si trovano molti saggi di taglio intelligentemente divulgativo su diversi argomenti: storia, specie contemporanea; scienza (dall'astronomia alla fisica); economia e diritto. E sono numerose, inoltre, le riviste non specialistiche, ma molto serie, rivolte a una fascia di lettori medio-alta: per esempio "Limes", con la sua apertura geopolitica. Bisognerebbe, in ogni caso, lasciare i ragazzi il più possibile liberi di scegliere le proprie letture e sottrarre questa attività intellettuale, che resta di grande importanza formativa, al sentore di "lettura imposta" dalla scuola».
Si parla tanto della decadenza del congiuntivo. Cos'altro della lingua è in pericolo o in crisi?
«La decadenza del congiuntivo è in parte l'effetto di una "temperatura percepita". Nell'italiano colloquiale, e non solo in esso, il congiuntivo è da sempre meno frequente dell'indicativo e proprio nelle strutture che oggi sono sotto accusa (le completive o il periodo ipotetico dell'irrealtà: “se lo sapevo, non venivo”). Per il resto, il settore più meritevole di attenzione mi pare il lessico. Per sopravvivere, anche bene, ci bastano 2000 o 3000 parole; per affacciarsi con qualche consapevolezza sul mondo ne servono molte di più».
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