"Se l’identità comincia dalle nostre cicatrici", prolusione di Christian Greco al MuMe di Messina
«Già nell’antico Egitto vi era la profonda consapevolezza che solamente il sapere, la ricerca potevano rendere veramente liberi. Ricerca, programmazione, conoscenza, significano dialogo e reciproca comprensione, per programmare il futuro guardando all’antico». Politica culturale, centralità della ricerca con uno sguardo attento sulle rivoluzioni del presente e al ruolo del patrimonio del passato per costruire identità e bellezza, a partire dagli oggetti, dalla loro storia millenaria. Ospite d’onore della cerimonia di inaugurazione dell’anno accademico dell’ateneo peloritano svoltasi (per la prima volta fuori dalle mura universitarie) in un luogo molto speciale e fortemente “identitario”, il MuMe-Museo regionale interdisciplinare, Christian Greco, direttore del Museo Egizio di Torino, nella sua prolusione dal titolo “Dialogo tra egittologia e archeometria: dotare di voce gli oggetti antichi”, ha offerto innumerevoli spunti sul ruolo dei musei oggi, sui ponti da attuare con le università per rispondere alle sfide del nostro tempo e permettere ai musei, luoghi della ricerca e della memoria, di continuare ad esistere. E lo ha fatto mettendo al centro la “biografia degli oggetti”: «Il momento in cui sono stati prodotti, la committenza, quello in cui sono stati feriti, abbandonati, sepolti, quello in cui vengono riscoperti e vivono in un Museo. Se riusciamo, attraverso la ricerca, a riconnettere tutti questi aspetti troveremo nuove narrazioni da offrire al pubblico». Ha anche ribadito che «gli oggetti non sono delle mere opere d’arte avulse dal loro contesto ma vivono all’interno di uno specifico palinsesto». Con i suoi 850 mila visitatori, quello egizio di Torino – che custodisce una collezione che non è italiana – è per il 2018 il Museo archeologico più visitato d’Italia, anche se Greco ha invitato a non redigere classifiche solo in base ai biglietti staccati, «va trovato un modello di valutazione differente, legato all’esperienza non al mero dato». Formatosi principalmente in Olanda, una brillante carriera tra ricerca, esperienze europee e numerose pubblicazioni, Greco non ama essere definito “cervello in fuga”: «Ritengo che la ricerca sia internazionale, da egittologo non potrei affermare il contrario: non si può fare l’egittologo chiusi in ufficio. Il problema del nostro Paese non è tanto che i giovani vadano all’estero, anzi questa possibilità dovrebbe essere data a tutti ed estesa, ma la poca attrattività che esercita l’Italia. E il patrimonio culturale può incentivarla. Bisogna lavorare sinergicamente con le università, investendo sulla ricerca, anche attraverso un patto pubblico-privato: il patrimonio culturale molto spesso è stato considerato come la panacea, la salvezza per i disastri economici del Paese, ma il patrimonio culturale è una ricchezza che dobbiamo custodire e su cui dobbiamo investire per aprire nuove prospettive di crescita. Bisogna fare sistema, fare rete tutti assieme come si fa in tanti Paesi europei: forse un po’ più di collaborazione e un po’ meno di campanilismo ci permetterebbe di comprendere meglio il nostro patrimonio». Gli abbiamo rivolto alcune domande. Ha dichiarato che «per capire la civiltà digitale servono archeologi, storici e filosofi»: quale il valore, oggi, della cultura umanistica, e quale il rapporto possibile tra museo e tecnologia? «La cultura materiale ci parla dell’identità, ci permette di capire chi siamo e ci dà chiavi interpretative per il futuro. Stiamo vivendo una profonda trasformazione, che spesso paragono a quella del V secolo a. C. col passaggio tra la cultura orale a quella scritta. Oggi invece stiamo entrando nella cultura digitale, per capire questa trasformazione abbiamo bisogno di umanisti, scienziati sociali, che mettano al centro l’uomo e raccontare il patrimonio culturale che custodiamo e dobbiamo consegnare alle generazioni future. Mi viene in mente l’immagine di alcuni ragazzi che fissano gli smartphone al Rijksmuseum di Amsterdam, accanto al dipinto di Rembrandt “La ronda di notte”. Nessuno lo guarda perché sono intenti a leggere l’app: non è questo il modo giusto di utilizzare gli strumenti tecnologici per scoprire il patrimonio culturale, è importante un approccio multidisciplinare per un racconto condiviso. La tecnologia ci permette anche di preservare il patrimonio e riparare agli errori del passato». “Radici, identità, futuro” sono le parole che ha utilizzato in relazione all’iniziativa in favore della comunità araba di Torino, aprendo ad essa le porte del Museo. E sono parole fondanti anche per una città nel cuore del Mediterraneo come Messina. Un tema su cui bisogna riflettere profondamente e da cui ripartire, ma come? «Essere al centro del Mediterraneo, come è la Sicilia, una delle regioni più belle al mondo, baciata dalla sua posizione e con un tessuto culturale unico, significa essere al centro di un mare che ha permesso la circolazione di persone, culture, idee, e non vi è crescita senza dialogo e incontro. Questo ci insegna la nostra tradizione millenaria. Un Museo è un patrimonio culturale di tutti e sento profondamente la responsabilità di gestire un patrimonio culturale non italiano, che proviene da un paese amico della sponda sud del Mediterraneo». La sua prima volta al MuMe di Messina: quali impressioni? «Sono rimasto stupefatto dalla bellezza delle opere e dalla forza comunicativa del Museo. Mi sembra di rivivere le ferite di questa città, duramente colpita dal terremoto, tutte le sue cicatrici che ne raccontano il passato e compongono l’identità. Qui vediamo le vestigia delle opere meravigliose che erano presenti in città a comporre un museo che permette non solo di sviluppare un percorso diacronico della città ma ne coglie il Dna». Cultura e politica: quale rapporto? «Un Museo, sede di un sapere intangibile, è un luogo “politico” nel senso etimologico del termine, ovvero legato alla vita politica della città. Tutti noi dovremmo ricordarci di essere sempre al servizio della città. Abbiamo bisogno di riconnettere il patrimonio culturale con la collettività ed essere pronti ad affrontare le sfide per rendere i musei per tutti e per il futuro».