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Un affresco dolente per ricucire assieme la nostra umanità

«In mare si muore una volta sola. In Libia si muore ogni giorno». Una frase, più di altre, risuona nella mente e nel cuore. Sono parole pronunciate con accento “straniero”, con tono fermo, di chi, nonostante il dolore, le ferite del corpo e dell’anima, non smette di desiderare un futuro migliore. Testimonianze di uomini e donne, corpi parlanti di sogni, dolori e speranze, portavoce d’umanità contro la barbarie, a comporre lo spettacolo “Da dove vieni? Terraferma, terrachiusa”, un affresco di note, immagini, narrazioni per guardare alle migrazioni di ieri e di oggi. C’è un filo sottile che sottende tutto lo spettacolo – ideato, diretto e interpretato da due attori messinesi che ormai sono volti noti in ambito nazionale, Giampiero Cicciò e Maurizio Marchetti – : l’invito ad indignarsi contro quel razzismo becero e semplicistico, che parla di razze pure, confini definiti, muri per dividere, e a resistere alla disumanizzazione dei rapporti. Eppure siamo tutti cittadini del mondo e nelle nostre vene scorre sangue meticcio, frutto di contaminazioni di popoli e culture.

Con questo messaggio i due artisti messinesi hanno dato il via alla narrazione, proponendo il video di una ricerca sul Dna che mostra come in ognuno di noi l’identità genetica sia costruita attraverso un mosaico prezioso di popoli: «Siamo tutti cugini». Nessuna velleità didascalica, però, piuttosto tanti spunti, resi con eleganza e garbo, per creare una contiguità emotiva tra palco e platea, animare una riflessione lanciando provocazioni e invitando ad andare al fondo delle cose.

Lo spettacolo ha debuttato al teatro Savio, con due repliche, inserito all’interno di “Aria nuova in ME”, la rassegna di musica e teatro organizzata dall’Associazione culturale ARB di Davide Liotta. Un percorso a più voci quello immaginato dai due artisti: leggio, luci soffuse, tante storie di personaggi noti e ultimi fra gli ultimi.

Marchetti accompagna con un riso amaro i primi articoli della Dichiarazione universale dei diritti umani firmata a Parigi il 10 dicembre 1948 e parole come «libertà, dignità, rispetto», troppo spesso calpestate, e chiama in causa il pamphlet liberatorio e corrosivo “Indignatevi!” che Stéphane Hessel scrisse a 93 anni, per ricordare al mondo quanto necessario fosse il valore della resistenza, che è proprio l’indignazione ad alimentare. Cicciò racconta di Amadou, italiano nero che parla dialetto romano e lombardo, un giovane che sogna solo di essere come gli altri. Ad accompagnare la narrazione s’inseriscono le musiche eseguite dal vivo dal maestro Giovanni Renzo al pianoforte, frammenti densi e avvolgenti. A volte sono i video a ricordarci quel razzismo quotidiano che, scontrandosi con gli occhi buoni dell’altro si sgretola, altre le immagini, a mostrare uomini simbolo oggi di resistenza e indignazione, come lo scrittore Erri De Luca e Mimmo Lucano, sindaco di Riace, altre ancora le parole, come quelle della preghiera “Mare Nostro”, interrotta dalle domande d’una bambina in platea che vuol sapere cos’è il razzismo.

Dalla platea anche una voce di dissenso, come tante oggi contro l’altro che arriva da lontano «per rubare il lavoro». Si caricano di un dolore profondo le testimonianze di una giovane donna e di un uomo fuggiti dall’inferno libico, affidate alle parole a volte incerte e agli sguardi fieri e ai gesti accennati di Igiebour Eseosa e Thilina Pietro Feminò. Una preghiera contemporanea, un rito comunitario fatto di piccoli frammenti d’umanità lacerata che cercano di ricomporsi, nel finale dello spettacolo, sulle note di “Pata Pata” della cantante sudafricana Miriam Makeba, Mama Afrika. Una danza liberatoria, un inno alla libertà e alla speranza.

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