Io credo che il tempo che verrà sarà dei paesi. Se torna l’arcaico torneranno i paesi del Sud. Siamo alla vigilia, mi piace credere, di una bella stagione; è venuto il nostro momento. E anche se fosse un’illusione, è un’illusione in cui conviene credere». Parola di un uomo del Sud, e di un paese del Sud. Quel Sud appartato, schivo, invisibile, che altrove – nel mondo frenetico delle merci, del consumo, delle fibre che portano tutto il mondo in tutto il mondo – viene dato per morto, e non è soggetto interessante per nessuno, se non per i poeti. Ed è parola di poeta, infatti, questa parola così potentemente divergente. Il poeta è Franco Arminio, classe ’60, irpino di Bisaccia. Un vero rebus, nel mondo delle lettere: è un poeta amatissimo, popolarissimo, perennemente in giro per l’Italia a leggere le sue poesie davanti alle platee più diverse, trovando invariabilmente – con una sicurezza da navigatore – la strada per il loro cuore. È anche una smentita vivente a tutte le leggi del marketing: lui pubblica ogni giorno almeno una poesia sulle sue pagine Facebook, e ne nasce sempre un dialogo coi lettori, una specie di elaborazione in qualche modo collettiva (è stato con una sorta di “referendum” che ha stabilito il titolo della sua ultima raccolta, appena uscita, “Resteranno i canti”). Eppure, i suoi versi così generosamente regalati e condivisi sono poi successi editoriali incredibili. Non meno incredibile è proprio questa comunità che si raccoglie entusiasticamente attorno a lui, ma non come si fa coi divi da Instagram, quelli che si sporgono dal balcone di cristallo per lanciare brioche griffate al popolino in attesa: è un popolo alla pari, che con lui canta, recita, interloquisce. Che partecipa in massa alle iniziative della sua “Casa della paesologia”, o al festival “La luna e i calanchi” di Aliano, o semplicemente va a sentirlo ovunque (da queste parti sarà di nuovo il 4 ottobre, a Vibo, per il Festival Leggere&Scrivere, alle 18 a Palazzo Gagliardi), e torna a casa con un frammento prezioso, una parola, un suono che sono bastati a rifondare una fiducia nel mondo, una sensazione di non essere soli, e che nel nostro stare assieme possa esserci qualcosa di bello, una scintilla di sacro. Quel sacro che ancora possiamo sentire, nella nostra Italia marginale, spopolata, sola. «Io cerco il sacro – dice Arminio. che martedì era a Messina – , cerco l’intensità. E il vuoto è più accogliente del pieno. Il vuoto accoglie il sacro, mentre il pieno è pieno di merci. La crisi dell’Occidente non è economica, ma ha a che fare con la perdita del rapporto col sacro e con l’utopia. Dappertutto, l’attività prevalente sembra essere la manutenzione della propria ricchezza. Ma per fortuna il mondo è ancora pieno di sacro». Solo che bisogna andarselo a trovare («la luce della Siciia è sacra», dice Arminio, che dedica subito una poesia estemporanea a Messina, città-battito-d’ali tra Sicilia e Calabria), bisogna cercarlo e volerlo, magari rifondando un modo per stare assieme. Che non è certo «l’autismo corale» dei social, la dipendenza «da certi oggetti – e indica il telefonino – che sembra possano portare la parola». E invece portano distanza e silenzio. Ne abbiamo avuto l’ennesima conferma a Messina, dove Arminio era stato invitato a un bell’incontro di Italia Nostra, per la presentazione d’una mostra fotografica sui “Paesaggi terrazzati”. Proprio quel paesaggio addomesticato pietra su pietra, filare su filare, senza mai farsi male, l’uomo e la montagna, ma sostenendosi a vicenda. Creando bellezza (e tra le tante meraviglie della mostra, quella curiosa sensazione di scoprire come un paesaggio del Perù può sembrare la nostra costa ionica, perché ci troviamo lo stesso rispetto reciproco, la stessa alleanza millenaria fra uomo e natura). Quel paesaggio terrazzato che è come la poesia: sudore, fatica, costruzione, rispetto, frutto. E come la poesia di Franco Arminio, la sua semplicità nel porsi come un diversamente artigiano, uno che «fa» – come ha sottolineato, citando la potente etimologia di “poesia” (da “poieo”, fare) la prof. Fulvia Toscano, che ha dialogato con lui. Che ha uno strano modo di dialogare, molto schivo, quasi dimesso: «Il poeta – infatti sottolinea – non è uno che sa, è uno che non sa». Ed è una specie di sarto, di fornaio, di contadino: «Oggi il poeta ha il compito di cucire i nostri stracci e farne un vestito bellissimo». E la sua poesia è davvero un utensile, un bicchiere di coccio per bere, una corda, un canestro per raccogliere le mele, una coperta per ripararsi dal freddo: un utensile che ci si passa di mano in mano, di bocca in bocca. Perché il poeta ha un senso solo nel suo rapporto con la comunità: «C’è questa voglia di rivolgersi alla polis. In questa fase della mia vita sento l’esigenza di una poesia che si rivolga alla gente, alle persone per strada. Io sono una persona per strada, come gli altri. Il poeta non è uno che sta sopra. Sta in mezzo agli altri. Il mio benessere è stare in un fervore collettivo, promuovere una riattivazione corale». Ed ecco il valore profondamente politico della poesia. Che non a caso per il “paesologo” Arminio fa tutt’uno con il suo impegno per i paesi dell’ «Italia interiore», quelli che racconta ogni giorno dalle sue pagine (e quest’uso “antisocial” dei social è una delle cose più gustose della sua bizzarra, meravigliosa attività). Eppure, la rivivificazione dell’ Italia spopolata dei paesi sarebbe anche una bella soluzione al rompicapo migrazioni (l’opposto di quello che il governo sta facendo, smantellando l’accoglienza diffusa, il modello Riace)... «Assolutamente sì. È scandaloso che molti sindaci si siano opposti, in questi anni, con scuse risibili. Il pericolo maggiore è non fare nulla, opporsi, creare muri. I paesi sono stati sempre abitati da popolazioni diverse. Non è una legge divina che ci stiano sempre gli stessi popoli. In un paese sta chi lo sceglie, chi trova delle opportunità in quel luogo, chi viene aiutato a vedere in quel luogo un’opportunità per la sua vita. Se gli stranieri comprendono che in quei luoghi possono trovarla, possono diventare cittadini di quei paesi: perché no? Uno del Congo può diventare un bisaccese, perché no?». E quindi torniamo al tema di fondo: la poesia come cura, attenzione, sguardo. Come «nuova, eterna resistenza». «In un mondo disattento, minato dall’autismo corale – ci dice Arminio – , la poesia è un invito a essere attenti, concentrati. A guardare la meraviglia delle cose che ci stanno attorno. Riattivare lo sguardo. Guardare il mondo, non solo le merci, scoprire la meraviglia attorno a noi».