Nadia Terranova, una delle voci più fresche eppure autorevoli della narrativa di oggi, a soli tre anni dal fortunato “Gli anni al contrario” (Einaudi) torna in libreria con un romanzo ancora più sorprendente.
“Addio fantasmi” è un corpo a corpo (ma verrebbe da dire “un nome a nome”) coi fantasmi della perdita e del dolore, che spingono Ida Laquidara, quarantenne scrittrice di storie per un programma radio, a tornare nella sua Messina, rifugio e trappola, nella sua “casa dei fantasmi”, fortezza vertiginosa – esposta ai venti dello Stretto, alla bellezza disordinata e caotica che solo i messinesi conoscono e subiscono eppure da cui dipendono – che protegge una ferita originaria, il nucleo di dolore attorno a cui la sua microfamiglia, lei e la madre, ha riorganizzato la vita: la scomparsa del padre.
In pochi giorni – scanditi da brevi capitoli “notturni”, ciascuno dei quali racconta un sogno, un incubo, un altro modo della realtà di manifestarsi in quel luogo assieme vuoto e sovraffollato che è la casa-fortezza e la stessa anima-fortezza di Ida – si compie quell’atto estremo che è sempre l’evocazione dei fantasmi, la convocazione degli assenti perché si possa compiere il rito del distacco. Un percorso, per Ida, attraverso tutto il non detto – il “non nominato”, vista la potenza sacrale del nome – attraverso il corpo delle cose (gli oggetti che accumuliamo per difenderci dal vuoto), attraverso i corpi che incarniamo via via (la bambina ferita, l’adolescente fuggiasca, la donna ancora dominata dalla perdita, che articola ogni rapporto secondo le distanze, e non le prossimità, che esso può permettere). Un narrazione concentratissima, esatta e rigorosa, in cui la nitidezza si avverte come raggiunta dopo un percorso in una forgia incandescente di forme ed emozioni. Un bellissimo romanzo, di cui sentiremo molto parlare.
Torni a Messina, torni a raccontare una famiglia, una “famiglia interrotta”: i sopravvissuti (a cui dedichi il libro) sono coloro che sono sopravvissuti a una perdita enorme. Perché «chi scompare ridisegna il tempo, e un circolo di ossessioni avvolge chi sopravvive». Che finisce per «abitare il danno, invece di ripararlo». Perdita, dolore, ferita: sono i motori potenti del tuo libro, forse della tua narrativa per intero...
«C’è una poesia di Elizabeth Bishop, “L’arte di perdere le cose”, che contiene insieme il sollievo e il dolore, la lacerazione e la libertà, è il racconto di un apprendistato, in fondo la vita è questo: un lungo apprendistato durante il quale impariamo a vivere con la perdita delle persone che abbiamo amato e se ne sono andate pr di noi. Scrivere per me significa rievocare quel dolore, riaprire quella ferita e guardarci dentro, lavorare sul magma che un tempo ci ha invaso e restituirlo sotto forma di ordine governato. E nel frattempo, nella destabilizzazione della scrittura, all’improvviso vedere la piccola luce, il provvisorio ma inevitabile conforto. E offrire al lettore pure quello, dopo averlo pagato a caro prezzo. Scrivere, in fondo, è essere sopravvissuti per raccontarla».
Ida, la protagonista, scrive per un programma radiofonico quelle che lei chiama «le finte storie vere», sperando che in qualche modo la curino. Le parole possono salvarci dal dolore?
«Quando il dolore esplode, dirompe, quando per esempio la scomparsa di una persona cara è improvvisa, c’è qualcosa di brutale e fisico, di selvaggio, che si prende tutto lo spazio e, almeno per me, è incompatibile non solo con la scrittura ma con l’idea stessa di apertura, di comunicazione. Il dolore è assoluto e si prende tutto, non vuole essere comunicato, non può esserlo, si sente unico e lo è. Poi, col tempo, quando del dolore cominciamo a sentire l’impronta, quando la ferita è diventata cicatrice, allora appare la parola, che non solo può risanare ma addirittura offrirsi agli altri e farsi rifugio per il dolore di chi legge, è questo il vero miracolo della letteratura».
Scrivere è seppellire o esumare?
«Esumare, senz’altro. Gli anni di stesura di un romanzo ti mettono di fronte a tutto quello che di te stai bene attento a tenere sepolto, altrimenti non c’è nessuna verità. Se non lavori con la vergogna, non c’è letteratura. Poi il libro esce e se ne va per il mondo con le sue gambe, e allora, solo allora, quella storia non è più solo tua ma di tutti, e senza quasi accorgertene hai cominciato a seppellirla di nuovo, e questa volta direi per sempre. Almeno fino al prossimo libro…».
Tu scrivi «un fatto non è un fatto non è un fatto»: perché è lo sguardo che lo definisce, la parola che lo racconta, il nome che lo suggella. Ida si confronta con quelli che crede fatti, ma si rende conto che senza la mediazione dello sguardo e della parola nulla accade davvero...
«“Le parole per dirlo” era il titolo di un libro importante, con cui Marie Cardinal nel 1975 raccontava un percorso di guarigione dalle proprie ossessioni attraverso il battesimo delle loro radici. Penso anche ai versi di Emily Dickinson: “Una parola muore appena detta, dice qualcuno. Io dico che solo in quel momento comincia a vivere”. Ida è stata costretta dalla madre e dalla situazione a vivere senza dare un nome al dolore enorme che si è abbattuto sulla loro famiglia. Non nominare significa non spiegare e negare addirittura l’esistenza: ma se il mio grande dolore non è mai accaduto, allora perché io vivo così?, si chiede. Ed è il primo passo per spezzare il sortilegio».
Messina è lo scenario, esteriore ma anche intimo, della vicenda di Ida. I suoi luoghi più noti (e amati), la sua luce, la sua caratteristica “calviniana” di città alternativamente accecante e accecata, antica e senza memoria, trappola e rifugio. Anche nel precedente romanzo tu hai davvero rifondato lo sguardo su Messina: lì la città “metafisica” che poteva essere qualsiasi luogo, qui colta e narrata fuori dal folklore, fuori dal mito ma con un’identità fortissima (quella che di solito si dice questa città non abbia…).
«Io sono messinese fin dentro le ossa. Ci ho messo quaranta anni per dirlo con questa sfacciataggine, questa sicurezza e quest’orgoglio. Tutta la mia produzione letteraria gira intorno alla città: quando sto qui la respiro, quando sono lontana la scrivo. Messina si offre a chi ha occhi per cercare, gioca a nascondersi ed è troppo spesso trascurata dai suoi stessi abitanti. È piena di fascino, misteriosa, cupa. Ha tantissime anime. Basta raschiare via la superficie, che a volte straborda di brutture, come si fa con la schiuma della birra quando è troppa. Ti ringrazio per quello che dici, perché tutto ciò che non dobbiamo fare è alimentare un’immagine da cartolina della Sicilia, ma provare a restituirne la complessità».
Il rapporto col romanzo precedente, il fortunato “Gli anni al contrario”, è inevitabile. Per il lettore è come se fosse, quello, una sorta di prequel. Eppure questo è in qualche modo, per tutte le scelte narrative (a partire dalla più forte e fondante: la narrazione in prima persona), il contrario: come se il dentro fosse rovesciato in fuori, e viceversa. Cosa puoi dirci?
«Mettiamola così: è come se la bambina, diventata adulta nell’ultima pagina degli Anni al contrario, avesse preso parola e raccontato un seguito. Che seguito narrativo non è: non solo le storie e i personaggi sono diversi, ma abbiamo proprio due romanzi che si reggono autonomamente, con linguaggi e strutture differenti (basti pensare che quello raccontava 10 anni in poco meno di 150 pagine e questo pochi giorni in 200…). Dire “io” e regalare a un personaggio immaginario tutto quello che si ha è un’esperienza rivoluzionaria: l’ho capito alla fine del mio percorso con Ida. Mentre quella storia, che richiedeva fedeltà cronologica a certi fatti, poteva essere solo una terza persona, qui c’è posto solo per il mondo interiore di Ida. E questo mi ha dato una libertà assoluta».
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