«Assieme a Carmelo Bene e a Mario Ricci, Carlo Quartucci è il capostipite dell’avanguardia teatrale del secondo Novecento, ed è anche l’unico dei tre vivo e attivo. In altri paesi una figura gloriosa come quella del regista messinese sarebbe circondata dall’alone del mito e i maggiori teatri pubblici farebbero a gara a invitarlo. Da noi, invece, Quartucci è entrato in una zona di marginalità ed è pressoché ignorato dai teatranti delle ultime generazioni». Così scrive Marco Palladini, scrittore e critico teatrale tra i più importanti.
Adesso è la Sicilia che provvede a una parziale riparazione: il Teatro Biondo di Palermo allestisce il suo “Guerrin Meschino”, tratto da Gesualdo Bufalino, e Messina, la città dove Quartucci è nato nel 1938, ospita il regista (definizione limitata) e Carla Tatò in una due giorni dal titolo "Il sogno della rivoluzione" organizzata da Universi Teatrali e dal Castello di Sancio Panza. Lunedì terranno insieme una lectio magistralis all'università (alle 15 nell'aula magna del dipartimento di Scienze cognitive, a cura di Rossella Mazzaglia e Federico Vitella) e martedì alle 15 saranno al Vittorio Emanuele per un incontro/dialogo a cura di Dario Tomasello e Roberto Bonaventura.
In Sicilia negli anni Novanta si è sviluppata la sua Zattera di Babele, mentre Messina nel 1993 mise in cartellone per la prima e unica volta lo spettacolo, “Tamerlano” di Marlowe.
Anche il Teatro di Roma recentemente ha affidato a Quartucci e alla sua compagna di sempre Carla Tatò alcune importanti iniziative, ma si tratta di ben poca cosa per un artista che ha dato vigore e originalità alla sperimentazione, con operazioni (apprezzate anche all’estero) che sono state alla base della “rottura” fra Nuovo Teatro e istituzioni pubbliche nel convegno di Ivrea del 1967. Gli spettacoli con lo Stabile di Genova e “Zip” di Giuliano Scabia alla Biennale di Venezia del 1965 furono tutto il contrario di ciò che si aspettavano un pubblico di abbonati e i tanti critici legati allo schema di un testo ben definito. Sicurezze che già mettendo in scena Beckett (con attori quali Leo De Berardinis e Claudio Remondi) aveva cominciato a scardinare. Pur dando valore, ancor prima di Bene, al concetto di “scrittura scenica” destinata a variare ogni replica, Quartucci non ha mai rinnegato la parola, semmai ne ha fatto un uso non consueto, ha studiato la phoné, tanto da raccontare come lo stesso Carmelo Bene la scoprì quando alla radio recitò “Tamerlano”, diretto da lui. Tuttavia rimaneva il concetto che le prime emozioni dovessero venire prima dalla vista e poi dalle parole. Lui era rimasto affascinato da Mondrian, Pollock e altri artisti di quel tempo, poi cominciò la collaborazione con Jannis Kounellis, il pittore dell’Arte povera, recentemente scomparso, che dal 1968 è diventato il suo scenografo fisso. In quell’anno nel mettere in scena “I testimoni” allo Stabile di Torino procedette alla distruzione di una forma di teatro prima di costruirne un’altra: nella scena preparata da Kounellis c’erano un quintale di carbone, assi e pietre, un centinaio di uccelli, un tucano, sacchi di iuta, carrelli mobili, stracci, terra e scope. Gli attori dovevano avere la massima libertà espressiva. Una provocazione che innestò una cosa rarissima: le proteste di una parte del pubblico e il favore di un’altra parte.
Eppure a un regista così legato alla sperimentazione, la Rai (davvero altri tempi!) affidò due sceneggiati rimasti famosi: “La fantastica storia di don Chisciotte della Mancia” (1970), interpretato da Gigi Proietti con le musiche di Giorgio Gaslini, e “La rappresentazione della terribile caccia alla balena bianca Moby Dick” (1973), con Franco Parenti, testi di Roberto Lerici.
Nonostante la lontananza, Quartucci è rimasto affezionato a Messina, come mi ha raccontato in interviste e conversazioni private. «Mio padre, Antonino Manganaro, era un attore del teatro siciliano, mia madre, Angela Quartucci (di cui porto il cognome), era una canzonettista con il nome d'arte di Gina Maschietto. Messinese lui, napoletana lei. La compagnia diretta da mio padre faceva tragedia, commedia, farsa, varietà. C'è mancato poco che nascessi sul palcoscenico, mia madre era impegnata a cantare fino a tre ore prima del parto. Ho esordito quasi subito facendo Gesù Bambino nella Natività». Era il tempo dei cosiddetti “scavalcamontagne”: «Sono cresciuto dietro le quinte dei teatri. I cavalli di battaglia di mio padre erano Verga con “Cavalleria rusticana" e Pirandello con "Il berretto a sonagli"; non posso dimenticare un "Amleto" in siciliano, ridotto da lui stesso. La storia del brigante Musolino andava avanti a puntate. Visto il successo che otteneva in Calabria, mio padre ogni sera ne scriveva una parte nuova».
L’esperienza nella compagnia dei genitori gli era rimasta nel sangue: è una delle ragioni per spiegare l'esperienza di “Camion”. Quartucci la racconta così: «Cominciai nel 1970, presi anche la patente da camionista. Potevo raggiungere qualunque paese, qualunque periferia, qualunque piazza. La gente veniva e "Camion" diventava ogni cosa: asilo nido per i più piccoli o ospedale psichiatrico quando siamo andati fra i pazzi. "Camion" era autonomo, bastava un cavo e cominciava a fare spettacolo con le narrazioni. Un'esperienza durata dieci anni e che terminò con la realizzazione di un film, intitolato "Borgata Camion"».
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