Capo Peloro, l’estrema punta della Sicilia, guarda da sempre il mitico mare delle sirene che ha ispirato scrittori come Stefano D’Arrigo che v’ambientò la lunga vicenda del suo “Horcynus Orca”. Un punto ove il mare è mare e dove le quinte naturali del palcoscenico dello Stretto sono sempre pronte a donare allo spettatore un tranquillo paesaggio marino, un inquieto scirocco, una spettacolare caccia al pescespada. A Capo Peloro, punto d'incontro e scontro tra Tirreno e Jonio, la leggenda vuole che il giovane pescatore Colapesce si fosse tuffato per ben tre volte, accogliendo le sfide lanciate dal re Federico II di Svevia e dalla sua bella figlia e al terzo tentativo non fosse riemerso perché, secondo l’interpretazione popolare, una volta raggiunto il fondo del mare aveva deciso di sorreggere la colonna Peloro, su cui poggiava la cuspide settentrionale dell’Isola, perché incrinata.
Dopo averne parlato in “Fiabe e leggende popolari siciliane”, volume pubblicato nel 1888 per le edizioni Luigi Pedone, Giuseppe Pitrè, (1841 –1916) scrittore, letterato e antropologo siciliano, tra le tante leggende toponomastiche raccolse nella sua monografia “Studi e leggende popolari in Sicilia” (1904, edizioni Carlo Clausen) quella dedicata alla storia di Cola o Nicola Pesce, «una delle più conosciute e da secoli e secoli… scienziati e letterati, teologi e filosofi, storici e novellieri, prosatori e poeti, l’hanno citata a ragioni diverse».
Nel 1797 Friedrich V. Shiller ne aveva fatto argomento di una ballata pietosa e solenne, e anche Benedetto Croce scrisse di Niccolò Pesce, come una delle leggende che più lo avevano colpito nei suoi primi anni a Napoli. «A documento parlante dei fatti (che lo riguardavano) il narratore (era il cocchiere di casa) mi additava il "ritratto" di Niccolò Pesce, che si vedeva scolpito in un bassorilievo incastrato nella casa all’angolo delle "strettole di Porto", di fronte al vico Mezzocannone, e accanto al grande atrio o supportico». Lo studio di Pitrè fu comunque il più autentico, affidandosi alla tradizione orale, evidenziando l’analogia che si riscontra nelle favole greche per i legami col mare. Lo stesso testo Pitrè riferisce di un’altra leggenda legata al limitrofo lago di Ganzirri che mette in luce il fascino fantastico di questo spazio lacustre: «Una volta capitò in Messina un gran riccone, questo riccone, incantato dalla bellezza del lago di Ganzirri, volle comprarlo. Il lago era del re; e il re non voleva venderlo, ma furono tali e tante le insistenze del forestiero che il re accondiscese, a patto però che il lago gli fosse pagato con monete d’oro messe di traverso, l’una di faccia all’altra così che tutte insieme circondassero il lago. Il forestiero desiderava invece che le monete fossero messe in piano; ma il re tenne duro, e il forestiero dovette cedere. Infatti, mise fuori monete e monete, una vera montagna di monete d’oro, e già era per compiere il giro del lago quando all’ultimo momento venne a mancaglierne una, soltanto una, e chiese che gli fosse abbuonata, ma il re non volle saperne a venir patto, e allora il forestiero disparve in una nuvola di fumo. Era il diavolo!».