In uno scantinato «umile e scorticato» cinque amici giocano per passione e per necessità a vinciperdi, un gioco a carte che li «protegge dall’altrove che regna fuori». È un gioco singolare (che peraltro esiste in qualsiasi gioco, contro le regole normali), in cui chi perde vince e le carte si intrecciano in modo tale che quelle vincenti, dunque le perdenti, secondo la logica rovesciata del vinciperdi, evocano nei giocatori strane euforie e fiammate di entusiasmo straniato. Si presenta così, con un incipit distopico, il romanzo d’esordio (in copertina illustrazione di Roberta Marchetta) di Antonio Siracusano, giornalista della Gazzetta del Sud che nella sua prima opera mette in scena una farsa tragica ambientata in una immaginaria (ma non troppo) cittadina di mare siciliana.
A Roccalumia la parola, privilegio e condanna del mortale, diventa luogo di conflitto e di perversione: si vive in un mondo di parole dirottate verso «più accomodanti interpretazioni», e mentre si pensa da parte di alcuni (come Edipo nella immortale tragedia sofoclea) di star affermando la verità, si segna invece la propria condanna. Perché nel gioco anfibolico della parola quelle che alla fine emergono per conto di altri e diventano opinione pubblica sono verità abusive, maldestramente sanate dalle corti del malaffare: post-verità che in un gioco post-tragico parlano con un linguaggio di morte.
Così la realtà non può essere molto diversa da quella che Manzoni esprime quando fa dire ad un suo personaggio sempliciotto, a proposito della peste, il male assoluto, «a chi la tocca, la tocca». È un gioco a perdere (a chi tocca, tocca) quello che avviene nella sonnolenta Roccalumia dove un villaggio turistico e un’aviopista sembrano essere piani indispensabili di sviluppo urbano per assecondare logiche di recupero e di riqualificazione, e sventrare anche l’ultimo residuo di memoria antica: un progetto di “Sviluppo all’Italiana” fortemente sostenuto (come si suole dire) da politici parvenu, da rappresentanti della legge e della giustizia, da galoppini e portaborse striscianti. Con l’aiuto persino di giornalisti compiacenti e preti corrotti: un mondo greve e molle in cui si affonda ad ogni passo in un abisso di corruzione e di degrado morale, tra collusioni e ammiccamenti mafiosi, tra occhi chiusi e baratri senza fondo delle coscienze.
Così, lo scantinato «umile e scorticato» di quel bar diviene il sottosuolo in cui è necessario disfarsi delle carte che contano e le carte stesse assumono un valore di resistenza e di dignità che la realtà di fuori, del mondo di “sopra”, non ha. Ma rappresentano anche un destino di silenzio e di solitudine esistenziale, come quello che sperimenta Sasà Pizzino, uno dei cinque amici, che si paga con la vita.
L’essenza del tragico – come ci insegna la filosofia – risiede proprio nella tensione tra opposte “necessità”, dove l’una tende ad eliminare l’altra e dove entrambe pretendono di affermarsi. E nel rito tragico dei vincenti e dei perdenti, il vinciperdi diventa l’unica voce possibile della coscienza, l’unico modo di possedere la verità. Poi, nel mondo di “sopra”, sempre cadaveri si è; e prima di essere tali, bestie in fuga inchiodate al proprio dolore, obbligate alla sospensione della parola. Ma se si può vivere nonostante qualunque dolore si stia provando, ci sono cose che valgono più di qualunque dolore: è questo «il più impensabile trionfo della sconfitta al vinciperdi» che il Gioco stesso narra in prima persona. Una voce silenziosa, questa, che si insinua nell’uso distonico della terza e della prima persona con cui l’autore racconta gli orrori di un’ordinaria e bestiale vita di provincia (l’animalizzazione è un tratto della narrazione di Siracusano, come traspare dai nomi parlanti con cui sono indicati i personaggi).
Una bestialità che ripete gli stereotipi che vorremmo dimenticare, quelli della collusione tra mafia e politica, tra menzogna e viltà, sui cui altari si bruciano vite e coscienze. C’è nella narrazione di Siracusano (che si muove tra un linguaggio “barocco” alto, a tratti persino ridondante, e un argot peloritano da “bar”) un gusto sottile dell’oscurità che tutto sfuma al nero; persino la sofferenza è cupa e disumana, e la parola, anche quella di Cristo, non può salvare il mondo. L’unica alternativa dunque è il vinciperdi, una sorta di “sfunnapedi” nelle cui segrete si ritrova il senso della vita. Solo così, rispettando le regole intime di quel gioco, rinunciando all’unica carta che si ha in tasca e lasciandola scartina senza pretese, come farà la moglie di Sasà, il volto umano può riacquistare dignità.
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La presentazione
Nel romanzo «la metafora della Sicilia si rovescia, come se imboccasse una strada contromano, scontrandosi con i volti di pietra dell’Isola. A guidare la corrente impazzita c’è un gioco che pretende la sconfitta senza dare nulla in cambio». Oggi, 17 giugno, la presentazione del libro a Messina (Feltrinelli Point, ore 18.30). Dialogheranno con l’autore Carmelo Micalizzi e Titti Batolo.