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E Messina risorse dopo la tragedia della guerra

E Messina risorse dopo la tragedia della guerra

“Benvenuto ai reduci di guerra” recava lo striscione posto a sventolare in alto nella zona dove approdavano le navi. Sotto vi sostava gente smagrita, provata da incredibili stenti e da una carta annonaria che, prevedendo 200 grammi al giorno di pane perlopiù di segala, costringeva a ricorrere al mercato nero anche per altri generi di consumo rigorosamente razionati. Di caffè nemmeno a parlarne, perché, essendo interamente d’importazione, il sistema autarchico l’aveva messo al bando. Tra i presenti al molo erano in tanti a sfogare l’ansia fumando convulsamente le pasticciate “stampatelle”. Si chiamavano così le sigarette approntate col tabacco delle cicche buttate per terra dagli “alleati”, rimasti a presidiare le città portuali.

Gli sguardi degli astanti si facevano frenetici appena avvistavano il “Messina” detto “jaddinaru”, l’unica nave traghetto che riprese servizio nell’immediato dopoguerra, le altre facevano parte del cimitero dei natanti in quel terribile fondale dell’orca assassina di cui narra Stefano D’Arrigo. Lacrime di gioia si alternavano a tremende delusioni.

Tra i tanti feriti, alcuni faticavano a scendere, le stampelle ne rendevano traballante il percorso. Era ormai un triste ricordo la partenza, quando al fischio del treno si sovrapponeva il suono della fanfara, mentre i finestrini gremivano di volti sorridenti che accorrevano al richiamo della Patria in armi.

Fu in un assolato 10 giugno del ’40 che il panno avana della radio “La voce del padrone” vibrò per la voce di Mussolini che annunziava la dichiarazione di guerra. A quel tempo non si poteva supporre l’accanimento sulla nostra città dei Boeing B.17-G americani detti, non a caso, fortezze volanti perché imbarcavano un equipaggio di 10 uomini, montavano 13 mitragliatrici, trasportavano bombe da 4.000 libre, le micidiali block-buster (spiana isolati), e volavano ad altezze irraggiungibili dalla nostra contraerea.

La girandola infernale iniziò il 30 gennaio del 1943 quando, alle 12.30 di un maledetto sabato, il suono delle sirene d’allarme mordeva l’aria. Sulle prime si pensò al solito ricognitore delle dodici. I cannoni della batteria di San Giovannello iniziarono per primi a sparare verso sagome di quadrimotori avvistati rosseggiare tra le nuvole. Grappoli di bombe cominciarono a sventrare palazzi e seminare terrore. L’indomani, era domenica e la città rimase deserta. Fu rinviata la partita di calcio Messina-Catania, derby di serie C previsto per le 15 al campo di Gazzi.

Due colpi di cannone, sparati ad intervalli di sei secondi, annunciavano un nuovo allarme. Le sirene erano rimaste inerti per mancanza di energia elettrica. In quell’incursione le bombe colpirono gli impianti della difesa marittima, la zona falcata e il centro storico. Dei nove Boeing impiegati ne rientrarono solo sette, perché due si videro precipitare portandosi appresso la classica scia di fumo. Erano stati abbattuti dai caccia italo-tedeschi intervenuti dagli aeroporti di Reggio Calabria e Catania. I velivoli nemici tornarono in forze il 24 e 25 marzo e, in ondate diurne e successive, due squadriglie formate da 40 e 50 Liberator lasciarono una città disperata e in fiamme. Il colpo di grazia lo inflissero le “fortezze volanti” il 12 giugno e 9 luglio, con incursioni così violente da rendere impossibile accertare i danni e contare i morti tra cumuli di cenere. I drammatici risultati confermarono le minacce fatte prima da Churchill e poi da Roosevelt che la distruzione del nostro paese sarebbe iniziata proprio da Messina, la città più esposta all’offesa aerea e più compromessa strategicamente.

Con la disfatta crollò l’Italia intera, furono giorni drammatici in cui nel setaccio della vita restavano solo panico e terrore. La volontà di ricostruire fu fervente, assoluta, determinata. Nemmeno il vento di scirocco, che dalle nostre parti soffia impetuoso, avrebbe potuto spazzare le macerie con tanta velocità. La gente seppe reagire impegnandosi a far risorgere, con la città distrutta, la fiducia nel domani. Si lavorava alacremente malgrado maree di vedove, orfani di guerra e mutilati rinverdissero atroci ricordi.

Alla fine del conflitto, industriosi uomini del tempo aprirono varchi nella storia del passato con intraprese che scossero dal torpore un popolo di vinti. Furono sufficienti barlumi di speranza affinché le città s’aprissero alla vita e alla rinascita. L’impulso alle attività fu inferto col vigore che viene dalla disperazione per cui rifiorì l’agricoltura che ridotta ai miseri orti di guerra esplose a produzioni d’esportazione specie nel settore vinicolo. Era uno spettacolo vedere la pastorizia occupare larghi dorsali dei Peloritani così dei Nebrodi e delle Madonie.

Riaffiorarono i locali di svago e di ristorazione che cercavano di far dimenticare i patimenti alimentari sofferti negli anni più bui del conflitto. Mancava il cibo, i morsi della fame certamente non potevano essere placati con quanto si riusciva ad approntare nelle cucine arrangiate pure davanti ai ricoveri Santa Marta e Cappellini che, per tanti, rappresentavano rifugio anche nel senso del tetto domestico, perché il loro era stato spazzato via dai bombardamenti.

La ricostruzione, raffazzonata e infedele nel ripristino dei disastri, risalì veloce lungo gli anni Cinquanta. Decennio che fu il preludio del boom economico. Messina ebbe e fece la sua parte con imprenditori di largo intuito.

Furoreggiarono l’industria, l’artigianato, la cultura. Era florido il commercio, mentre le banchine del porto gremivano di barili d’essenze in partenza per l’estero. C’erano atelier d’alta moda, sartorie egregie, L’ultima forbice d’eccellenza della vecchia guardia, Angelo Arena, ci ha lasciato in questi giorni a 103 anni. Riaprirono i battenti le trattorie tradizionali che preparavano specialità messinesi dove imperavano le ghiotte di pesce stocco e spada senza nulla togliere alle fritture di calamari e gamberi, agli involtini di carne, meglio dette braciole. S’andava a colpo sicuro secondo le preferenze per cui pullulavano i don Fano, Federico, Mommo, Pitruzzu all’opera e i donna Giovanna, Lina a Ganzirri. Tornarono a trionfare le manifestazioni religiose della Vara e delle Barette. Si ripristinò la festa della matricola, per l’occasione il sindaco consegnava al “Grifone” le chiavi della città, così il carnevale messinese con relativa sfilata di carri allegorici.

Nella nostra città uno dei primi, grandi centri di aggregazione fu il Ritrovo Irrera di piazza Cairoli che mantenne il prestigio della produzione artigiana dei migliori gelati, si disse, del mondo! Ne era gestore il commendatore Renato di genia fascista coloniale, d’estate capitava che indossasse sahariane color sabbia e perfino blu. Di tratto rude alla Humphrey Bogart pure nei rapporti con l’altro sesso, governava il personale con lo sguardo e le varie espressioni del volto. Raramente gesticolava ed era tutto d’un pezzo perfino nel deambulare con brevi passi da piccione e con le braccia incollate lungo i fianchi. Il “principalone” come veniva indicato dai camerieri in maniera più che altro riverenziale, a sua volta era amministrato da Gilda Orecchio, la minuta, ma energica lady di ferro della contabilità.

Tra i tanti, avvertì l’esigenza di tastare esperienze nuove Peppino Lo Giudice che addirittura svestì l’abito talare di seminarista e lasciò Cesarò per Messina. La laurea in lettere gli giovò solo come titolo d’istruzione per il lavoro amministrativo svolto all’Autoparco municipale alle dipendenze dell’ingegnere Sparacino. Gli amici di subitanea frequentazione presero a chiamarlo “il professorino”, forse per l’aspetto dimesso, il tratto impacciato e l’ostinato vestire di scuro. Alto, leggermente dinoccolato, occhi chiari e inclini ad abbassarsi sotto occhiali tersi e dorati, il Nostro dopo le 21 era disponibile a darsi alla Messina notturna e godereccia. Allora il divertimento s’aggiungeva al lavoro, oggi alla disoccupazione!

Il drappello dei nottambuli, perlopiù studenti universitari, se attrezzati di mezzo di locomozione capitava che passasse da piazza Dante dove, nelle stanze in famiglia delle sorelle Pappa, Lo Giudice aveva trovato alloggio a prezzo contenuto. La domenica e le feste comandate era d’obbligo che pranzasse dai parenti. Le poche ferie le trascorreva al paese natìo, dove amoreggiava con Tina Vasta, una “signorinella pallida” che, nonostante fosse timida e riservata, gli aveva turbato i sogni di seminarista. Al professorino la città lo folgorò, gli si rivelò tutta da scoprire, assolutamente da vivere. Le scanzonate frequentazioni, un discreto tirocinio nei locali notturni e altre mondane esperienze, contribuirono ad emanciparlo, sveltendone modo di fare, tratto e abbigliamento.

Dopo qualche lustro, vissuto in spensieratezza giunse il giorno in cui Peppino prestò fede all’impegno d’amore contratto con la sua Tina e la sposò. Dalla loro unione nacquero quattro figli che gli comportarono la completa dedizione alla famiglia. La storia del professorino sarebbe stata sepolta assieme alle spoglie terrene se il suo terzogenito non l’avesse riportata alla memoria cittadina. Il figlio Sergio è venuto alla ribalta per la nomina a presidente nazionale dell’Arcigay e dal 2013 senatore Pd.

Il destino di perdizione culturale lasciato dalla guerra, Messina iniziò a recuperarlo dal 3 gennaio del 1944, data in cui s’inaugurò l’Anno Accademico nell’aula magna dell’università, restaurata in pochi mesi dall’ufficio lavori dell’Amgot, diretto dal tenente Leslie J. Hodges.

Il nostro Ateneo riprese a vivere con Gaetano Martino magnifico rettore, eletto tra i 23 deputati della nostra circoscrizione, assieme a Basile, Bonino, Candela, Caronia e Trimarchi. Gruppo che andò a far parte del primo Parlamento repubblicano dell’11 giugno del 1946. Lo scettro del rettorato, pertanto, passò a Salvatore Pugliatti, insigne giurista a cui si deve la mostra di Antonello del 1953, con opere del celebre pittore giunte da gallerie di tutto il mondo. Tra i grandi meriti del prof. Pugliatti l’avere legata l’università al tessuto cittadino tramite il gruppo dell’Ospe, la libreria di piazza Cairoli che ospitava l’Accademia della “Scocca” di intellettuali e il “Fondaco” in cui coabitavano libri e quadri, sculture, gioielli d’arte, litografie (dal 1950 al 1982 ospitò oltre 400 mostre). Ne era titolare Antonio Saitta, che proveniva dalla gloriosa libreria Ferrara, entrata in crisi con la morte di don Vincenzo, il vecchio titolare. L’amicizia tra Saitta e Pugliatti risaliva al tempo in cui lavoravano entrambi per la “Gazzetta”, il primo da giovane pubblicista e il futuro rettore da correttore di bozze. La conduzione dell’Accademia della “Scocca” comportava a Saitta organizzare simposi, curare gli annali dell’accademia, inventare pompose onorificenze, rigorosamente vergate su carta gialla-paglierino, detta “catta i pasta” che opportunamente attorcigliata era pure fumata dai ragazzi durante la guerra. Se ne servivano anche i goliardi per il “Papello”, una sorta di lasciapassare scritto in latino maccheronico, che consentiva alle matricole di circolare indisturbate per l’ateneo.

Quel mattino del 1° giugno del 1955 Enrico Vinci, segretario dell’on. Gaetano Martino, l’ex rettore divenuto ministro degli Esteri, s’aggirava attorno a Palazzo Zanca affinché non fosse trascurato alcun dettaglio per lo storico evento della Conferenza Europea (Ceca) che scaturiva dall’incontro tra i sei ministri degli esteri di Francia, Germania, Olanda, Belgio, Lussemburgo e naturalmente Italia. Al saluto augurale del sindaco, Carmelo Fortino, rispose il lussemburghese Beck: «La Sicilia è la più bella isola del Mediterraneo e Messina ne è la perla».

Uno dei giorni che legava la nostra città alla storia del vecchio continente, capitava di venerdì per cui Vinci si era premurato di consultare l’arcivescovo mons. Angelo Paino se fosse il caso di servire la carne durante la colazione di lavoro. Lo scaltro archimandrita senza indugio rispose allo zelante segretario: “Non costituisce peccato ciò che entra in bocca, ma quanto vi fuoriesce”. Francesco Paolo Fulci, già ambasciatore d’Italia e attuale presidente della Ferrero, a quel tempo non aveva il frac, per cui lo prese in affitto. All’occhiello, avendo poco da esibire, rispetto ai tanti riconoscimenti ostentati dagli illustri ospiti, sfoggiò il “Sacer ordo zammare” di goliardica memoria.

L’iniziativa privata, oltre a occuparsi del ripristino industriale e commerciale, ritenne opportuno provvedere ai locali di svago. Uno dei primi operatori in tal senso fu Antonio Crisafulli. Allestì il teatro Estivo Moderno che, riparato da alcuni edifici, sorgeva tra le vie Santa Cecilia e Giordano Bruno. Il critico Nitto Scaglione in proposito scriveva: «Poiché non esiste un premio al valor teatrale è urgente crearlo». Il cartellone per la stagione estiva 1945 annunciava 4 opere amate dal pubblico: Traviata, Rigoletto, Bohème e Butterfly. L’occasione fu propizia per ascoltare le voci del baritono Tito Gobbi e del soprano Maria Caniglia.

L’estate per Messina ha rappresentato da sempre un grande palcoscenico sul mare, per cui è scontato che la suggestiva ribalta viva di fascino e luce propria. A questo pensò Renato Irrera, già titolare del ritrovo di piazza Cairoli nell’approntare un night che s’estendeva pure su palafitte. Infatti da un lato fiancheggiava l’arenile e dall’altro la Fiera Campionaria Internazionale. Il resto lo fecero orchestre famose che portarono le sconvolgenti musiche dell’America latina. Quale luogo migliore per proiettare film da festival internazionale? Fu la domanda che si posero gli ideatori della Rassegna Cinematografica. Complice la luna e i fari delle navi traghetto che illuminavano le gremite piste da ballo, la combinazione riuscì alla perfezione, per cui narrarne merita un capitolo a parte.

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