Messina

Sabato 23 Novembre 2024

C’era una volta Messina,
una città da favola

C’era una volta Messina, una città da favola

La nostra città di “c’era una volta” ne accumula più delle favole in considerazione di quanto ha perduto o le è stato sottratto. Oggi viviamo l’atmosfera dei frati trappisti, riecheggiando la rituale frase, parodiata in: “Fratello ricordati che devi fallire”.

Nel Dopoguerra gli scampati ai bombardamenti s’aggiravano tra le macerie di una città distrutta animati dalla speranza di ripresa. La fine del conflitto segnò l’universale cessazione della paura. Un tempo all’approdo delle navi traghetto un grande striscione recava la scritta “Benvenuti ai reduci di guerra”. Una folla attendeva i congiunti ad ogni rara tornata di ferry boat. Lacrime di gioia accoglievano processioni di mutilati. Messina reagì e ciascuno si dette da fare per ristabilire la normalità.

Dai negozi situati in isolati ridotti in cenere da tonnellate di esplosivo rovesciato dalle “Fortezze volanti”, qua e là avanzava un brandello di saracinesca. Le prime incursioni diurne devastarono la Stazione centrale, il Cimitero Monumentale, l’ospedale Piemonte, il Palazzo della Gil, la vecchia pescheria in ferro battuto… la città si leccava le ferite e nel contempo copriva voragini, rattoppava strappi, riedificava case, finché si ricrearono luoghi di lavoro, cultura e svago.

Tutti si rimboccarono le maniche, in molti s’inventarono industriali, riuscendoci al pari di costruttori e piccoli imprenditori. I commercianti con le loro vetrine rifatte a giorno ridettero luce alla città, mentre gli artigiani ripresero a lavorare alacremente, costituendone eccellente risorsa e vitale rilancio.

La florida attività della pesca richiama alla costruzione delle barche. Ferveva l’attività dei cantieri di Ganzirri con Giuseppe Domenico Galbo, Giacomo Costa, Antonio Mancuso e tanti altri. A villaggio Pace era noto Giuseppe Federico (mastru Peppe) con il figlio Francesco. A villaggio Paradiso c’era il cantiere dei Tringali, specializzati nella costruzione di feluche per la cattura del pescespada. Nella zona del Ringo ricordiamo il cantiere “Nettuno” di Antonio Micali, più a sud sorgevano quello dei Picciotto e Di Maio. Le installazioni proseguivano a San Ranieri, Maregrosso e lungo la riviera sud. Fu infine il cantiere Rodriquez, con l’aliscafo, a far volare il nome di Messina sui mari del mondo.

Un esempio di che pasta fosse fatta la gente del dopoguerra nell’arte di arrangiarsi: citiamo per primi i fratelli Canonico. Francesco era padre al pittore Felice di cui la città ne ricorda spesso opere e talento.

In via Centonze caddero due bombe una all’incrocio con la via Maddalena e l’altra centrò parte dell’isolato 143 (casa Caracciolo), tra le cui macerie i fratelli Canonico, due corpulenti quarantenni con mani robuste e callose da boscaioli, riuscirono a realizzare una forgia in grado di fondere i metalli. Era sorprendente come in quelle condizioni fossero capaci di produrre pentoloni per grandi comunità. L’attrezzatura, raffazzonata e primitiva, non li scoraggiava, anzi li spronava a fare di meglio. Unico loro svago l’Opera dei Pupi di don Lisciandro. Alloggiavano in una modesta bottega con soppalco in legno in via Maddalena 113. La famiglia era composta da otto persone di notevole stazza.

La sola finestra, a ridosso della cucina, s’affacciava in un cortile in uso a Maria Gambardella. Gestiva un negozio di carbone in via Centonze 109 e malgrado le bombe piovessero a più non posso, s’industriava affinché quel poco fornito ai tanti clienti con la “carta annonaria” almeno fosse caldo. Il marito, Angelo Giardina, era il gelatiere di fiducia di Renato Irrera.

Talora passando di sera davanti la bottega della carbonaia s’avvertiva un pungente odore di pesce stocco a ghiotta. Donna Maria lo cucinava per il “principalone” del marito. Serviva a tavola in giacchetta bianca il fratello della padrona di casa, tale don Ciccio “u immaruto”, persona assai gradita all’ospite, essendo superstizioso come ogni siciliano di razza.

Altro esempio di laboriosità era il ciabattino Salvo D’Urso che rattoppò senza sosta le sofferte scarpe dei messinesi. Era il calzolaio preferito dal prof. Salvatore Pugliatti. Il fatto capitò quando il magnifico rettore gli commissionò un paio di scarpe in occasione dell’imminente cerimonia per celebrare all’Accademia della “Scocca” (d’amici) Salvatore Quasimodo, insignito del Premio Nobel.

“U scarparu” si spaccò in quattro per trovare la pelle di capretto, così tutto il resto di non facile rinvenimento. Lavorava alacremente davanti la sua abitazione “putia”, quando un pallone gli sobbalzò sul deschetto. S’incazzò al punto che gli inferse un tale colpo di trincetto da sbudellarlo.

È indescrivibile lo sgomento dei ragazzi che finalmente stavano giocando con un pallone vero, di quelli professionali, raro e di elevato costo. La vendetta giunse feroce e fredda. Alcuni giorni dopo un’auto sostò davanti la bottega del “malvagio”. Accadde nel momento in cui il calzolaio si assentò che i ragazzi terribili con una corda legarono il deschetto al paraurti della macchina. Quel che successe lo raccontava divertito il prof. Pugliatti, informato dell’accaduto dallo stesso D’Urso quando andò a portargli le scarpe e ne motivò la ritardata consegna.

Nei primi anni del Dopoguerra, in una città che voltava pagina restava la voce nostalgica del popolare barbone Vincenzo Croce, detto “Pidocchia”, che andava gridando “Viva il Re”. Avvolto in una palandrana grigioverde, pasticciata di medaglie, si trascinava grattandosi per le vie della città che, nonostante i bombardamenti, erano meno travagliate delle attuali. Piazza Cairoli, ex salotto buono, costituisce vergognoso capitolo a parte. La coerenza per la fedeltà alla corona fruttò al barbone più da morto che da vivo. Il Partito monarchico provvide alle spese del funerale che si celebrò nella chiesa di Santa Caterina Valverde. Una ghirlanda recava sul nastro brunito la scritta in oro: Umberto di Savoia.

Don Liu “u immarutu”, invece, cantava per le strade del centro melodie di opere e andava dicendo che l’aveva rovinato la radio. Talora toccava a Matteo “u babbu” col pianino d’allietare un quartiere, s’incazzava quando era sopraffatto dalla stridula trombetta del “n’duvina vintura”. Molti di questi indovini stazionavano a piazza del Popolo assieme a mangiafuoco, acrobati, giocolieri. Tra i comici i noti Franco Franchi e Ciccio Ingrassia.

Il gioco più praticato era quello “di tri catti”. Non è rimasta memoria delle vecchie nenie dei vari imbonitori di cui si udiva “banniari”: “L’umbrillaru”; “u m’paghia seggi”; “n’tò ghiacciu, fridda, gilata a gazzusa”. A richiamare i ragazzi c’era il tinnio del campanellino del gelataio ambulante, che con voce stentorea annunciava le specialità di “crema, torrone e cioccolato”.

Sotto gli alberi di piazza Cairoli nel mitico ritrovo Irrera i figli del boom economico si godevano il miracolo italiano. Del semenzaio degli amici faceva parte Totò Orlando, sottaniere e reduce di un raid di 150 mila chilometri percorsi su un fuoristrada assieme a Nino Visalli e Pucci Sturniolo, viaggio da cui trasse spunto il libro “Una Jeep per tre italiani”.

A fare le spese dell’allegra brigata Giovanni Falkenburg Leiningen (von), come pretendeva essere chiamato, anche se il suo cognome negli incartamenti anagrafici risultava più semplicemente Marangolo. I suoi ricordi, fasti e momenti trascorsi a corte con la cugina Elisabetta d’Inghilterra gli nocquero ai fini delle “tarigghie”, ovvero scherzosi tiri mancini a suo danno.

La schiera dei nuovi ricchi s’infoltiva sempre più. I messinesi cominciarono ad avere d’abitudine l’aeroporto di Reggio Calabria e a bordo di traballanti Fokker dal cuore antico sfarfallavano perlopiù verso la capitale della dolce vita. La parola comfort iniziò ad essere presa in seria considerazione. Giuseppe Parisi, presidente dell’associazione barbieri, s’attrezzò per i servizi di manicure e dei pannicelli caldi, alla faccia del benessere.

Anche coloro che il lustrascarpe Stefano D’Angelo detto “Chiantedda” definiva “pitoffi”, cioé i non abituati a cambiare piede quando batteva la spazzola sulla “banchitta”, avevano pretese e parlando, come si suol dire, con la lingua di fuori disquisivano su ristoranti da gran gourmet. Gli osti di trattorie locali, tipo donna Giovanna, don Fano, don Federico, don Mommo, restavano basiti alle richieste di vini che non fossero il solito “sfuso” servito dalla casa.

Di questi tempi imperversava l’Agosto Messinese che racchiudeva una serie di manifestazioni popolari nel teatro all’aperto di piazza Municipio detto dei “Dodicimila”, dove si esibirono artisti di fama internazionale.

I ragazzi erano legati al vecchio tram che afferravano a volo per recarsi nei lidi frequentati dalla Messina bene: i bagni “Vittoria” e il “Principe Amedeo”. Talora la corsa era sfortunata perché saliva il controllore all’altezza del bar Bonfantino (il primo a fare café chantant) sulla via Garibaldi, quasi di fronte al circolo canottieri Thalatta. I bagni “Vittoria” costituivano maggiore attrazione perché a un centinaio di metri dalla battigia c’era la nave Principe di Piemonte che, colpita da un siluro, era reclinata sulla fiancata destra. Emozione unica e spericolata consisteva nel tuffarsi dal ponte del piroscafo che, come pachiderma ferito, se ne stava ancorato in attesa di essere rimosso.

Tra i camerieri stagionali dell’Irreramare, che sorgeva lungo la Fiera Campionaria e ospitò la prima Rassegna del Cinema, c’era Antonio Blandino, a cui avevano appiccicato il titolo di onorevole, essendo stato candidato nel partito popolare della “Tromba”. I suoi comizi, tra risate e ogni genere di chiassose battute, erano spassosi soprattutto per il linguaggio colorito e sempliciotto. Durante una festa della matricola un gruppo di goliardi lo portò in trionfo dopo un comizio che tenne di fronte l’Università, togliendo pubblico all’on. Almirante che parlava a piazza Cairoli.

“Le zingarate” come nel serial cinematografico “Amici miei” erano frequenti, divertenti e denotavano entusiasmo e spirito giovanile. Corse voce che imbarcato col grado di sergente su una nave da guerra americana, attraccata nel porto ci fosse il campione del mondo dei pesi massimi Joe Louis. Nicola Caligiore e Pino Milioti, informati della famosa presenza, concertarono di organizzare per il Cus un incontro di box. Vittima designata tale Nico Mazzotta, pugile di mezza botta. Sull’euforia della recente fine del conflitto il campione accettò l’invito di esibirsi per gli sportivi alleati.

Il match, che doveva risolversi in una disputa amichevole, avvenne dentro il palazzo della Dogana in una serata di beneficenza. La scelta sull’antagonista di comodo cadde appunto sul Mazzotta che non capì il suo ruolo di comparsa, oppure era stato mal consigliato. Quando il colosso americano giocava con lui a fare finte di pugilato, Nico gli assestò un uppercut pensando di abbatterlo e acquistare universale fama. Joe accusò il colpo che contraccambiò con un destro così potente da fare volare Mazzotta fuori dal ring.

Altra figura che è andata sparendo l’indaffaratissimo “strazzafacenni”. Solitamente vestito di scuro, per conferire tono al ruolo, con le tasche slabbrate da scartoffie, s’aggirava nei pressi degli uffici pubblici. Oggi, tra l’altro, morirebbe di fame, sbrigando chissà quando le pratiche con cui tirava a campare.

Dire che i giovani d’oggi preferiscano granite e pesce fresco non è una novità, mentre ci sarebbero idee contrastanti circa l’uso del cetriolo. La gente comune lo gusta col sale o a insalata, mentre le nuove generazioni lo prediligono nel drink, conferendogli freschezza.

Sotto l’ombrellone un tempo era d’avanguardia la radiolina a pile che non tiene confronto con lo smartphone, anche se l’ossessione del momento si chiama “Pokemon go” con cui si va a caccia di animaletti virtuali. Al tempo dei rifugiati nel ricovero S. Marta per scampare ai bombardamenti, di animaletti ce n’erano a volontà e recavano strani pruriti. Non era necessario andarli a cercare, si presentavano e saltavano addosso ai malcapitati!

Sono stati posti a confronto i due momenti di ieri e d’oggi per promuovere una sana riflessione sul futuro, considerando che sono le persone, gli amministratori a stabilire le sorti di una città. Del passato inusto una frase di saggezza nostrana galleggiava pure tra i tavoli del bar Irrera e rimane per tutte le stagioni. È opportuno pronunciarla verso chi amministra. Alla fine del consueto delirio lucido, anziché lasciarsi coinvolgere in un inutile dialogo era d’uso il domandargli in maniera seria, ma spiazzante: Comu bi vinniru st’annu i buttigghi i pumadoru? (Come sono venute, quest’anno, le bottiglie di pomodoro?).

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