di Vincenzo Bonaventura
Divertente, paradossale, ironico, intelligente: è quello che si vede subito. Ma c’è molto di più nel monologo “120 chili di jazz”, scritto e interpretato da César Brie, in scena al Forte Teatro Festival. Ci sono tante storie: non solo quella del protagonista, ma anche di popoli, del teatro e del mondo. C’è affabulazione e c’è inverosimiglianza, che si alternano ai loro contrari e diventano narrazione storicizzata e realtà. Tutto per uno spettacolo molto più complesso di quel che sembra. L’attore, autore e regista argentino, nomade per necessità ma anche per dovere come accade a chi crede nella “sacra missione” del teatro, ha lasciato il suo Paese al tempo della dittatura militare, ha attraversato la Milano dei centri sociali, è stato in Danimarca con l’Odin Teatret di Eugenio Barba, ha vissuto a lungo in Bolivia, esponente di un teatro politico che lo ha costretto a lasciare ancora il Sud America per tornare in Italia, sempre a raccontare l’attualità mentre diventa storia, ma capace anche di grandi ricerche spirituali come ha fatto di recente mettendo in scena la “contemporaneità” di Simone Veil.
In “120 chili di jazz” tutto questo c’è, se si vuol vederlo, anche se in scena appare solo una sedia. C’è insieme con la capacità “antica” di interagire con il pubblico in modo semplice, di spostare il baricentro geografico di una storia apolide (nonostante i riferimenti continui al Sud America) inserendo persone e luoghi di ogni città dove si presenta, con la ricerca della complicità banale e necessaria a chi racconta (oggi come ieri).
La storia, surreale fino a un certo punto, è quella di Ciccio Méndez, obeso di 120 chili, innamorato di Samantha, giovane erede di un ricco imprenditore che organizza una festa a numero chiuso, dove c’è posto per orchestre tradizionali ma anche per un complesso jazz. Folle d’amore, Ciccio concepisce un piano ingenuo e impossibile: sostituirsi al contrabbassista ed entrare alla festa per farsi notare dalla sua innamorata (che non sa di esserlo). Non è capace di suonare, ma sa imitare perfettamente le note dello strumento. Come succede nelle favole, il successo arride al protagonista, preannunciato dagli accessori colore lilla dell’amata che coincidono con quello della sua cravatta. Tutti lo applaudono e perfino Samantha gli si fa incontro, ma gli chiede il sacrificio massimo: dimagrire. Così lo spettacolo finisce con Ciccio che abbandona il sogno e si ritrova nella rassicurante realtà del frigorifero e dell’ennesimo panino gigante della sua vita. “Amici” cui non rinuncerà mai, mentre volta le spalle al pubblico e dimenandosi si lascia indietro senza rimpianti ciò che ha incontrato immergendosi per una volta nella vita degli altri.
César Brie è bravissimo a occupare da solo ogni spazio del palcoscenico; agilissimo sessantenne, sa muoversi felpato e snodato, sciolto e pesante, in un continuo cambio di stile fisico e verbale. La “favola” di Ciccio attraversa realtà esistenziali, interiori e collettive, diventa storia e cronaca (con l’accenno, di forte impatto, a una strage di campesinos avvenuta in Bolivia), ci riporta avanti e indietro nel modo di fare teatro, rinnovando e riproponendo.
Alla fine, tra gli applausi, c’è la dedica finale a Giuseppe Luciani, attore e regista messinese appena scomparso.
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