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Caliri, un messinese
tra le stelle del jazz

di Fausto Cicciò

Dice bene il pianista di Baricco: “Quando non sai cos’è, allora è jazz”. Ma se neanche questo espediente riesce a definire esattamente quello che stai ascoltando, forse è una di quelle rare occasioni in cui ti sei imbattuto in qualcosa di nuovo. E’ il caso dell’ultimo lavoro di Domenico Caliri, compositore e chitarrista messinese che, dopo la proficua collaborazione negli anni Novanta con Enrico Rava, ha lasciato il segno suonando con le stelle del jazz non solo nostrano (da Antonello Salis a Paolo Fresu, da Lester Bowie a Richard Galliano), incidendo una trentina di cd (cinque con la sua firma) e partecipando ai più importanti festival jazz (dal Canada alla Cina, dalla Turchia al Giappone).

Dopo cinque anni dal precedente album da leader, “Il buio acceso” edito da Caligola Records,  la stessa etichetta dà alle stampe “Camera Lirica”, definito dall’autore “un contenitore di polifonie vecchie e nuove, una concertazione di strumenti e timbri diversi”. Nove partiture con le quali Caliri si è guadagnato recensioni entusiastiche della critica specializzata e  il terzo posto come miglior album nel Top Jazz 2014 di “Musica Jazz”.

Foto di copertina di Katia Donato

 

Se l’anagramma Lirica/Caliri è un modo per “spiazzare” subito l’ascoltatore con un gioco di parole, “camera”, invece, dà perfettamente il senso della piccola orchestra di tredici elementi (“tredici colori dentro un unico quadro”) che esplora le insolite tessiture create dall’artista siciliano. Caliri (che oltre a dirigere imbraccia la chitarra anche in questa occasione) in questo suggestivo ibrido mescola il jazz con il rock progressivo, la musica colta contemporanea e i ritmi etnici. Una “splendida foresta di suoni” in cui, suggerisce Enrico Rava nelle note di copertina, i rimandi di stile sono così innumerevoli da poter individuare ispirazioni tra loro lontanissime come Stravinskij e Carla Bley, Weill e Zappa. O, aggiungiamo noi, l’esotismo di Debussy. Ma come non ricordare, ascoltando “Baccanale” (allegoria sonora in cinque quadri) l’orgia frenetica di “The Black Saint and the Sinner Lady” di Charles Mingus (non a caso indicato da Caliri nella sua “top five” dei dischi  “indispensabili”). Un gioco di metafore e affreschi che riesplode, tra unisono sincopati e vorticosi, anche in “Mouse”.

Un “diario intimo” in cui coesistono ironia e introspezione, un  piccolo gioiello di puro estetismo al quale hanno preso parte alcuni tra i più interessanti improvvisatori italiani di ultima generazione, i quali fanno da contrappunto con i loro arditi fraseggi alle rigorose articolazioni melodiche e armoniche degli spartiti: dalla chitarra elettrica di Fabio Costantini (sue le sei corde in cinque brani) agli irrequieti sassofoni di Francesco Bigoni,  Piero Bittolo, Guido Bombardieri e Beppe Scardino. E poi tutti gli altri coprotagonisti: Christian Thoma (oboe, corno inglese), Mirco Rubegni (tromba, corno francese), Glauco Benedetti (tuba), Pasquale Mirra (vibrafono, xilofono), Alfonso Santimone (piano, korg ms-10), Francesco Guerri (violoncello), Federico Marchesano (basso elettrico,  contrabbasso), Federico Scettri (batteria).

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