Messina

Mercoledì 15 Gennaio 2025

"Quella sera Matteo non telefonava, poi ho saputo". Messina e quelle tante ombre a 27 anni dall'omicidio del prof. Bottari

Piove questa mattina. Un sipario di pioggia leggera s’intravede dalla grande finestra che guarda sul mare agitato, nella grande villa di famiglia dei d’Alcontres, a Sant’Agata, sulla litoranea. Piove come quella sera di ventisette anni fa, il 15 gennaio del 1998. Quando la vita del prof. Matteo Bottari venne annientata da un solo colpo di lupara che fragorosamente s’infranse sulla sonnolenta Messina, la “città nascosta”. Ancora oggi una tragica morte senza un perché. Alfonsetta Stagno d’Alcontres, la moglie del prof. Bottari, è seduta sulla poltrona del salottino più vicino al mare, le sue mani si muovono freneticamente. Aprire ancora una volta, dopo tanto tempo, questa pagina dolorosissima e irrisolta, per lei è difficile. Mentre iniziamo a parlare la chiama al telefono uno dei figli, Antonio, oggi un medico affermato al Policlinico, una goccia d’acqua col padre. Si preoccupa che non si agiti troppo, negli anni, dopo quello che hanno subito, il suo affetto per la madre s’ingrandisce ogni giorno che passa. Mentre parla, e ricorda, più volte la voce si rompe di amaro pianto. Ma è una donna forte. Ha del vero coraggio a parlare. Grazie di aver accettato questa intervista, è difficile riaprire una pagina dolorosa. Vogliamo cominciare ricordando cosa successe quella sera ? «Sì... io ero qui a casa con Antonio, aspettavo che tornasse lui per cena, perché era andato alla clinica “Cappellani” come faceva... adesso non mi ricordo se andava due o una volta sola a settimana. Era mercoledì... niente, aspettavamo. Ha chiamato un paziente che lo cercava e io gli ho detto di richiamare che sarebbe tornato tra poco. Intanto però non si faceva sentire, lui aveva l'abitudine quando era per strada, che stava per tornare, di chiamare... e niente... allora poi a un certo punto si erano fatte le nove passate, e allora l’ho chiamato io... l’ho chiamato io... e come ho raccontato cento volte... in quella telefonata che prima mi fece lui ho sentito solo questo rumore stranissimo... come il rumore di una bottiglia di plastica che si accartoccia proprio. E basta. Ho chiuso, ho pensato a un’interferenza, non lo so, ho provato a richiamare... e non è successo più niente... e basta... sono rimasta qua ad aspettare, nel frattempo Antonio aveva fame e ho detto “beh sai che c’è, magari mangia tu e quando torna papà io mangio con lui”. E quindi Antonio ha cenato, io no». E dopo? «Poi, era passato un po’ di tempo, hanno citofonato, un uomo si è qualificato come un ispettore di polizia, però io non ho aperto e gli ho detto “Guardi aspetti fuori, perché tra poco mio marito torna...”, e mi dice “No ma io devo entrare”, insomma ha insistito tanto poi al videocitofono, mi ha mostrato il tesserino e l’ho fatto entrare... contemporaneamente sono arrivati i miei cugini... insomma... lui ha insistito, il poliziotto ha insistito perché andassi con lui in Questura...». E una volta arrivata in Questura? «Niente... mi hanno chiesto... io continuavo a dire “Ma dov’è mio marito? Ma perché? Che cosa c’è?”... tutto il tempo in macchina ho tempestato questo poliziotto chiedendo “Ma scusi, mi sta portando in Questura... ma perché? Ma mio marito dov’è?”... e continuavo a pensare che avesse avuto un incidente di macchina, perché Matteo era uno che correva, con quella gran macchinona là, era fissato con le macchine, aveva quest’Audi... ero convinta che avesse provocato un incidente stradale, che avesse travolto qualcuno... questo pensavo. Quindi facevo domande in questo senso, però quello mi diceva “No, no, signora non si preoccupi, stia tranquilla, non si preoccupi, no”, ma non mi diceva niente. Poi questo poliziotto ci ha fatto entrare in questa stanza dove c’erano questo ispettore e un altro uomo, c’era l’altro, il commissario, come si chiamava?» Forse era il vice questore Gaetano Bonaccorso? «Sì, Bonaccorso, esatto. E niente, mi hanno chiesto di mio marito, dove era, che cosa faceva, e io gli ho raccontato che era andato alla “Cappellani”, che l’aspettavo, che non era tornato, intercalando, dicendo “Ma che cosa è successo?”... ma non avevo nessuna risposta, con Antonio seduto accanto a me. Ad un certo punto mi ha guardato in faccia e mi da detto “Gli hanno sparato”, e io gli faccio “Ma a chi?”, perché lungi da me l’idea che avevano sparato a mio marito... e da lì... niente... Antonio mi è saltato addosso... ci siamo abbracciati e siamo andati nel panico naturalmente... poi contemporaneamente si sentiva un gran frastuono fuori dalla porta, perché era arrivato mio padre (l’ex rettore Guglielmo Stagno d’Alcontres, n.d.r.), era voluto venire per forza in Questura e non lo volevano far entrare nella stanza dove eravamo io e Antonio. Ma lui, lo sentivo che gridava in continuazione “È mia figlia!”, e quindi l’hanno fatto entrare... aspetti... scusi... mi sto commuovendo... un attimo». Sì, fermiamoci... «... e quindi l’hanno fatto entrare e ci siamo abbracciati tutti e tre... piangendo e niente... io continuavo a dire che volevo andare da Matteo e cominciavo a dire “Dove l’avete portato?” e pensavo che fosse in ospedale, non pensavo... che era morto... ma loro mi dicevano “No, no, no, non può essere, non è possibile”, e poi insomma prendevano tempo, fino a quando poi mi hanno detto... che era morto. Poi Bonaccorso mi ha dato un bigliettino con un numero di telefono, e mi ha detto di chiamarlo per qualsiasi cosa...». È tornata a casa? «Sì, e c’era l’inferno... l’inferno... non so quante persone c’erano, perché questa cosa naturalmente si era saputa, e niente... questa è stata la serata... poi ha telefonato all’altro figlio, quello in America, loro sono arrivati dopo un giorno... e niente... questa è stata la nottata che abbiamo passato». Da quel momento sono passati 27 anni e lei ancora oggi non ha una risposta? «No». Secondo lei perché non ha una risposta? «Non lo so... perché forse le indagini si sono fermate, oddio, all’inizio certamente ci sono stati dei depistaggi... perché le indagini sono andate forse in direzioni sbagliate all’inizio, e poi sono proseguite... io pensavo, speravo che si arrivasse a qualcosa però invece purtroppo no, non so perché... se ci sono stati degli intoppi... non so... io penso che comunque chi indagava ha cercato di fare il possibile, però non lo so. E poi notizie di quello che si scopriva, che andavano a scoprire, io non ho mai saputo nulla, perché a me non ha detto mai niente nessuno, qualche cosa l’ho saputa ogni tanto tramite l’avvocato Troja (il compianto avvocato Sandro Troja, il legale della famiglia, n.d.r.), ma poi... fine». Le posso chiedere se suo marito in quel periodo ha dato qualche segno di insofferenza, di preoccupazione, che lei ricordi? Aveva qualche questione in sospeso che le confidava? «No, no, assolutamente no. Questo me l’hanno chiesto subito tutti quanti. No, era tranquillo, non c’era niente... no, non aveva nessuna preoccupazione, tutto era sereno, vabbè... i soliti problemi del Policlinico, c’era questa questione del famoso reparto che si doveva fare, questo rapporto burrascoso direi con Longo, perché c’era questa questione della direzione di questo reparto che si stava formando, ma insomma diciamo cose abbastanza risapute...». Dopo tanti anni, le posso chiedere ancora, se mi consente, lei si è fatta un’idea del perché, ricostruendo quel periodo? «No, non me la sono fatta, no, non lo so, non ne ho idea veramente... non lo so». Non c’è uno spiraglio, un ricordo, qualche flash che le è venuto in mente in tutti questi anni, che le fa dire “potrebbe essere questa la causa”? «Sicuramente qualcosa che io penso legata al Policlinico, all’Università, a questioni di questo genere, ma personalmente lui... penso... non so... perché poveretto... secondo me... non penso che lui avesse fatto qualcosa da provocare un evento del genere... assolutamente no». Si è detto all’epoca che una delle possibili spiegazioni, mi consenta, è questo suo ruolo che aveva tra i due rettori, l’uscente Guglielmo Stagno d’Alcontres, suo padre, e di cui quindi era genero, e quello in carica a quel tempo, il prof. Diego Cuzzocrea, di cui era il pupillo... «Potrebbe essere, ma non penso diretto a mio padre che era ormai fuori da ogni ruolo, diciamo semmai col rettore allora in carica, perché lui era molto vicino al professore Cuzzocrea, quindi non lo so». C’è la possibilità secondo lei che questo caso, oggi, dopo tanto tempo, si possa risolvere? Che cosa chiede oggi davvero lei? «Io vorrei sapere che cosa hanno fatto, a che punto sono arrivati casomai nelle indagini, e se c’è qualche spunto dal quale poter ripartire, andare avanti, cercare di comprendere». Quindi lei crede ancora che le indagini possano essere riaperte? «Beh, dopo 27 anni non lo so... veramente... che cosa possono fare, perché probabilmente anche molte persone di quelle che c’erano un tempo, non ci sono più, non lo so...». Vuole approfittare di questa intervista per chiedere ufficialmente la riapertura di questo caso alla Procura? «Non so se ci sono i termini, le condizioni per poterlo fare... non lo so... su questo sì... il mio pensiero... sì certo, se le riaprono ben venga, se si riesce a trovare qualcosa dico, sarebbe chiaramente importante. Noi, la famiglia, gli amici stretti, quelli che sono con noi, è chiaro che saremmo tutti ben felici di sapere come e perché». Lei in questa casa lotta con i ricordi da tanti anni, quali sono i più importanti? «La nostra quotidianità, le nostre risate, le nostre cene, questo certo. Adesso tutto si è sfumato... è stata dura, è stata durissima all’inizio perché c’erano tutti gli oggetti in giro... i suoi abiti... le sue cose... la sua penna, all’inizio... chiaramente. Poi nel tempo un po’ magari si sfuma... ogni tanto quando siamo noi insieme, con i miei figli, diciamo “ma se ci fosse stato papà avrebbe detto questo”, se accade una cosa noi diciamo “figurati come si sarebbe arrabbiato”. In questo senso lo ricordiamo, cerchiamo di ricordarlo con allegria, comunque». In tutto questo tempo c’è stato mai qualcuno che l’ha avvicinata parlando di questo caso, ha ricevuto mai anche delle lettere anonime sulle soluzioni possibili? «No, assolutamente no». Non ha mai avuto più nessuna notizia? «No, da nessuno, nessuno, mai». Torno su una domanda. Vorrei capire meglio il perché, se lei se lo spiega... «Guardi, non è che non me lo spiego, non lo so, non riesco ad attaccarmi a niente per trovare una soluzione, no, non lo so, non ne ho idea. Se avesse avuto un problema me l’avrebbe detto, perché poi alla fine lui si appoggiava moltissimo a me. Non mi ha parlato di un problema, tranne, ripeto, di questo problema del padiglione, al Policlinico, del reparto, della carriera, del fatto che voleva diventare professore ordinario, insomma cose normali, questa ambizione che aveva, sì, fortissima, ma diciamo era una cosa normale, positiva, onesta. D’altra parte, guardi, che se l’avessi saputo l’avrei detto, se avessi saputo una cosa precisa l’avrei detta, o un sospetto, oppure dico un’idea da dare. Ho parlato sempre con l’avvocato Troja, ci siamo visti mille volte e abbiamo dipanato la vicenda da tutti i lati, non c’è stato mai nulla che ha portato a qualche causale». Va bene, grazie... «Io la ringrazio di questa sua iniziativa. Io sono contenta, questo voleva dire anche Antonio, il fatto che se ne parli è positivo, perché i ragazzi di 30 anni oggi non lo conoscono. Sono contenta... tra virgolette... che se ne parli, che lui venga ricordato soprattutto per quello che era, una bravissima persona, una persona onesta».

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